Difesa della Sanità Pubblica: una battaglia di civiltà

di Mariateresa Fragomeni, Dirigente Nazionale del Partito Democratico e Sindaco di Siderno (RC)

Sembra passato un secolo da quell’agosto del 2007 in cui il regista statunitense Michael Moore (vincitore di un premio Oscar per il documentario sulle stragi figlie dell’uso indiscriminato delle armi negli Usa “Bowling at Columbine”) presentava in Italia il suo film “Sicko” che metteva a nudo le carenze e le incongruenze del sistema sanitario americano. «In America muori, se non hai i soldi per pagare», disse. Aggiungendo che «nessun cittadino italiano è diventato un senzatetto per colpa delle spese sanitarie, mentre negli Usa questo può accadere».

Erano i tempi in cui le classifiche internazionali sulla qualità dei servizi sanitari pubblici collocavano l’Italia al secondo posto nel mondo, preceduta solo dalla Francia.

Oggi, quel sistema sanitario italiano così ammirato ovunque si sta avvicinando sempre di più a quello americano oggetto di critiche, a ragione, nel celebre documentario di Moore. Dunque, come ricorda la nostra segretaria Elly Schlein, è il tempo di difendere la nostra sanità, pubblica e universalistica, dai tagli e dalla progressiva privatizzazione messa in atto dalla destra. Un processo subdolo, quello in corso. In cui, dietro la parvenza di una conservazione del sistema sanitario pubblico, si celano meccanismi disincentivanti per i medici, specie quelli più giovani, passati attraverso le forche caudine di università a numero chiuso e percorsi di specializzazione post laurea, che si ritrovano a percepire, nelle strutture pubbliche, stipendi molto più bassi rispetto alla media europea e parecchie rigidità per chi vuole svolgere la professione extramoenia. Risulta ovvio come i medici più motivati (e in molti casi, più preparati) preferiscano lavorare nelle tante strutture private. Insomma, in Italia, oggi più che mai, non esiste una questione di scelta tra pubblico e privato. Semmai, ciò che resta della sanità pubblica diventa l’unico approdo di chi non può permettersi i costi delle prestazioni sanitarie nel privato e le sue condizioni generali gli permettono di aspettare, viste le lunghe liste d’attesa. Un fenomeno, quest’ultimo, al quale oggi si cerca di porre rimedio ricorrendo a turni straordinari e festivi da parte del poco personale presente nel pubblico.

Perché è anche la carenza di medici, infermieri e OSS a rendere meno performante la sanità pubblica. Sia negli ospedali che nelle strutture territoriali in via di ricostruzione (o rifunzionalizzazione) grazie alle risorse stanziate col Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, dopo la terribile pandemia da Covid-19.  È impresso nella memoria collettiva, infatti, l’impatto della pandemia che ha messo a nudo il progressivo smantellamento della sanità territoriale, e ha comportato altresì una riconsiderazione del ruolo dei medici di famiglia, sui quali, oggi, pende la spada di Damocle di una riforma, tentata dal Ministero della Salute e da alcune regioni, che ne limiterebbe fortemente tutta una serie di libertà professionali di cui godono in regime di convenzione.

Il rischio, dunque, è quello di trovarsi corsie di ospedale semivuote, strutture di sanità territoriale prossime all’apertura che potrebbero trasformarsi in cattedrali nel deserto perché prive di personale e carenza di medici di famiglia, per via di un turn over insufficiente.

Proprio così: quelli che appena cinque anni fa venivano considerati alla stregua di eroi, oggi sono rimasti a operare in condizioni proibitive e con limitazione dei turni di riposo, acuite dalle intemperanze di alcuni pazienti e dei loro congiunti, che spesso sfociano in aggressioni fisiche.

Nel film “Sicko” di Michael Moore, i cittadini americani svenati dai costi del loro sistema sanitario e abbandonati dalle compagnie assicuratrici, stante l’impossibilità di pagare i premi mensili, si affidavano ai viaggi della speranza nella vicina Cuba, certi di trovare lì la dovuta assistenza. Quei medici cubani così ossequiosi del giuramento d’Ippocrate, da un paio d’anni li “importiamo” in Italia con contratti a tempo determinato, proprio per supplire alle carenze di organico negli ospedali. Al di là delle loro comprovate qualità umane e professionali, il ricorso alle loro prestazioni rappresenta, con tutta evidenza, una soluzione tampone, perché non basta una convenzione internazionale a supplire alle carenze di un sistema in cui accanto ai medici caraibici operano anche i professionisti “a gettone”, con evidenti sproporzioni in termini retributivi.

Dunque, il problema della carenza di organico rimane in tutta la sua evidenza e in tutti gli ambiti sanitari: ospedale, territorio, medici di base.

Il Partito Democratico ha, da tempo, indicato una strada chiara, proponendo il ritorno a una sanità efficiente e in grado di curare tutti. E siccome la nostra non è una mera enunciazione di principio, diciamo a chiare lettere che il Governo è chiamato a compiere investimenti importanti per portare la spesa sanitaria al 7,5% del Prodotto Interno Lordo, riallineando la percentuale a quella degli altri Paesi europei.  E ad aumentare la spesa relativa al personale sanitario con un massiccio ricorso a nuove assunzioni, eliminando gli attuali tetti e innalzando gli stipendi di chi già lavora nel settore. Le risorse necessarie? Si potrebbero ottenere, ad esempio, dal taglio di 5,5 miliardi di sussidi dannosi per l’ambiente, che permetterebbe anche di investire su prevenzione, promozione di stili di vita sani e accesso alla diagnostica precoce.

Proposte, queste, che fanno il paio con una grande strategia di mobilitazione al fianco di medici, infermieri e OSS. Per aver cura di chi cura.

Una forza politica popolare, radicata nel territorio e attenta ai bisogni reali dei cittadini come il Pd, non può non essere al loro fianco, perché questo significa sostenere chi soffre.