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Lavorare per vivere o per morire

di Mariateresa Fragomeni, dirigente nazionale PD e Sindaco di Siderno (RC)

Lavorare per vivere o… per morire? È il dilemma di fronte al quale ci pone la cronaca quando, con cadenza quasi quotidiana, riporta la notizia di un incidente mortale sul lavoro, che in molti casi non riguarda un singolo addetto ma si trasforma in una vera e proprie strage: l’ultima, in ordine di tempo, quella di Palermo a inizio maggio, con cinque operai morti intrappolati nei cunicoli dell’impianto di sollevamento delle acque reflue.

Cosa determina questa intollerabile mattanza?

Uno studio condotto dal gruppo di lavoro “sicurezza e appalti” di Itaca (Istituto per l’Innovazione e la Trasparenza degli Appalti e la Compatibilità Ambientale) evidenzia che dei circa mille morti all’anno sul lavoro in Italia, un quarto è impiegato nel comparto edile. E che, soprattutto, il 60% degli incidenti mortali in cantiere è riconducibile a cause determinate da scelte compiute prima dell’inizio dei lavori. Altro che la presunta “ineluttabilità” di certi infortuni mortali, luogo comune richiamato da chi sembra quasi giustificarsi! È la stessa “direttiva cantieri” della Commissione Europea a smentirlo, puntando l’indice sulla necessità di attuare serie politiche di prevenzione degli infortuni, in un mondo del lavoro caratterizzato dalla trasformazione del rapporto tra la produzione (sempre meno programmata e sempre più “On demand”) e il mercato, che imporrebbe l’adattamento dell’organizzazione del lavoro a nuove esigenze non sempre prevedibili, soprattutto nel complesso mondo degli appalti, alle prese con innovazioni legislative che si traducono, sostanzialmente, in una tendenza alla deregolamentazione del lavoro, principale concausa dell’aumento degli infortuni e delle malattie professionali.

Una progressiva erosione delle tutele e dei controlli, infatti, si traduce in una precarizzazione che avvicina il mondo del lavoro in Italia a situazioni estreme come quella del Qatar, laddove in occasione della costruzione degli stadi per i mondiali di calcio morirono numerosi operai, immigrati alla ricerca di un salario e scomparsi nell’indifferenza di una propaganda di regime incentrata sull’efficientismo e sulla magnificenza delle opere. È quello il “modello” al quale vogliamo guardare?

Il timore è più che fondato, specie dopo l’entrata in vigore del nuovo Codice dei Contratti Pubblici.

Il D.Lgs. 36/2023, infatti, è stato uno dei primi tratti distintivi del Governo Meloni e prevede, tra l’altro, la possibilità di ricorrere al subappalto a cascata (peraltro contrario alla specifica disciplina delle direttive comunitarie), un vero e proprio amplificatore di flessibilità che si traduce in un sostanziale allentamento delle tutele e della sicurezza dei lavoratori. E non si tratta di una valutazione meramente politica, magari frutto della sacrosanta indignazione dei leader sindacali.

Sono i dati dell’Inail, relativi al primo trimestre del 2024, a mettere in risalto un ulteriore aumento degli infortuni dello 0,4% rispetto allo stesso trimestre dell’annus horribilis 2023; +25,2%, ovvero un infortunato su quattro in più, rispetto al 2022. Mentre il report annuale redatto dall’osservatorio “Sicurezza e Ambiente” di Vega Engineering testimonia che si muore sul lavoro soprattutto al Sud (la mia Calabria è tra le regioni con un’incidenza media dei decessi superiore al 125% della media nazionale) e nei settori dell’edilizia, dei servizi alle imprese e del comparto ambientale. Più si è anziani e più si rischia di morire sul lavoro, come gli operai stranieri, che muoiono con una frequenza doppia rispetto ai colleghi italiani.

Come uscirne? Anzitutto col ritorno a una legislazione in linea con le direttive della Commissione Europea. Quindi, occorre instillare una cultura della sicurezza sul lavoro che favorisca l’acquisizione di forti modelli cognitivi, di tipo interdisciplinare e sul piano logico e metodologico. Una cultura votata alla prevenzione e alla formazione di qualità, in cui, anche passando da meccanismi premiali nel caso di raggiungimento di obiettivi sul modello “Zero Infortuni”, si faccia sentire la prevenzione per la sicurezza come qualcosa che appartiene al lavoratore e alla comunità e non come un “obbligo” imposto dalla legge al datore di lavoro.

Con una certezza: fin quando si parlerà in termini di “costi della sicurezza” e non di investimenti in sicurezza, la tendenza negativa in atto non sarà mai invertita.