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E INTANTO MELONI CERCA DI COSTRUIRSI LA SUA REPUBBLICA

di Daniele Borioli

Ci sono molte ragioni che rendono doveroso contrastare il tentativo delle destre italiane di stravolgere l’impianto costituzionale. Il riferimento alla deriva di alcune nazioni europee, in particolare appartenenti all’ex blocco sovietico, verso la compiuta deformazione della democrazia in “democratura”, non può più essere semplicemente evocato come il rischio dal quale proteggersi con interventi di carattere preventivo, ma come un male penetrato in diffusa profondità nel corpo delle nostre istituzioni, grazie all’azione caparbia e non priva di astuzia dell’attuale Presidente del Consiglio.

Ci sono, quindi, sul terreno moltissime doverose ragioni per accingersi a combattere, su più fronti, una battaglia nella quale la posta in gioco è non solo la qualità ma la natura stessa della democrazia italiana. E, solo un tratto più in là, il profilo dell’Unione Europea: progetto ancora incompiuto e, oggi, posto di fronte al bivio tra la direzione che porta verso un più coerente impianto di natura federale, e quella che, invece, segnerebbe la regressione verso un’Europa somma di nazioni e nazionalismi, quasi sempre incapaci di trovare accordi utili per affrontare le crisi e le sfide che il mondo attuale ci pone davanti.

Se ancora ce n’era bisogno, l’intervento al raduno madrileno di “Vox”, ha confermato quale sia la direzione verso la quale muove il cuore dell’attuale inquilina di Palazzo Chigi. Sotto la maschera dell’ostentata quanto fasulla moderazione, che Meloni indossa allorché partecipa ai vertici internazionali, o alle occasioni istituzionali in patria, continuano a battere i toni mai rinnegati della militanza post-fascista, della quale la leader di Fratelli d’Italia si ritiene, a ragione, l’ultima erede. Alla quale spetta il compito di giocare una partita decisiva: far diventare la cultura e la tradizione politica dalle quali proviene (e che non a caso ha voluto sia ostentata nel simbolo del partito di cui è capo indiscusso) matrice di un nuovo “patto costituzionale”.

È quasi superfluo dire che siamo distanti anni luce, nelle forme e anche nella sostanza, dal becerume che si raduna annualmente alla toma del duce, o dove il duce fu giustiziato, per salutare a braccio teso e gridare slogan fascisti. E siamo ancor più lontani dal neofascismo violento di piazza, dal terrorismo nero o, peggio ancora, dalle trame eversive e stragiste che abbiamo conosciuto negli anni che Sergio Zavoli ebbe a chiamare “La notte della Repubblica”. Al punto che anche soltanto avanzare un parallelo con quella storia risulta fuorviante e persino dannoso: in quanto impedisce di cogliere il tratto specifico dell’insidia alla quale l’Italia si trova di fronte.

Nei decenni successivi alla “caduta del muro” e alla drammatica vicenda di “Tangentopoli”, è stata molto spesso utilizzata e abusata la definizione di “seconda Repubblica”, per indicare quel complesso di sconvolgimenti politici e partitici, sistemi elettorali e ordinamenti istituzionali, che hanno connotato l’Italia segnandone un radicale distacco dagli assetti stabilmente costituitisi all’indomani della liberazione, dell’affermazione della Repubblica e dell’entrata in vigore della Costituzione. Sconvolgimenti che hanno avuto i loro tratti distintivi più rilevanti: nel passaggio a un assetto bipolare orientato all’alternanza di governo; nell’introduzione dell’elezione diretta di sindaci e presidenti di province e regioni; nell’apertura a un modello autonomista e federalista dell’ordinamento repubblicano.

Un percorso certo non esente da sbandate, soluzioni affrettate, incompiutezze, che ora sarebbe troppo lungo elencare e analizzare. Nessuna delle quali, tuttavia, poteva ricondursi al disegno esplicito di scardinare, nella sostanza, l’intangibilità del dettato costituzionale, ma caso mai al tentativo di meglio articolare e potenziare l’architettura e l’ordinamento delle istituzioni preposte all’attuazione dei principi fondamentali da esso previsti. Naturalmente, anche quella stagione vide insinuarsi nelle pieghe della spinta riformatrice alcuni tentativi più diretti a scardinare che a meglio ordinare.

Su tutti, il disegno secessionista della Lega di Bossi. Il quale, tuttavia, venne riassorbito e depotenziato in chiave federalista, durante la lunga partecipazione del movimento politico padano alla coalizione di centro-destra, costante nel tempo con l’eccezione delle elezioni politiche del 2006, successive alla caduta del primo governo Berlusconi. Il quale, nonostante fosse direttamente interprete di un nuovo modello di populismo destinato a segnare profondamente la scena politica non solo italiana, non portò mai alle estreme conseguenze un progetto di destrutturazione dell’impianto costituzionale. Forse, anche perché limitato in questo dalla folta presenza nei ranghi del partito da lui “inventato”, Forza Italia, di numerosissimi reduci dei partiti dissoltisi a seguito di “Tangentopoli”: ex democristiani ed ex socialisti, comunque pienamente figli della democrazia maturata nei decenni precedenti.

Ora, senza dimenticare le insidie e i tranelli posti sulla strada della nostra democrazia nel corso dei decenni passati, occorre concentrarsi sul salto di qualità che la leadership di Meloni ha impresso: da quando è alla guida di una maggioranza che, ormai, è costituita da un aggregato di forze e di persone che, anche per questioni generazionali o di formazione politico-culturale, non riconoscono nella Costituzione repubblicana la sorgente primaria della nostra convivenza democratica, innervata sulla radice antifascista della Resistenza.

Questo è il punto: Meloni e l’inner circle di sodali che l’hanno accompagnata negli anni, lungo la faticosa risalita dalla discosta posizione dell’underdog al ruolo maggiore di governo, non possono e, probabilmente, non potranno mai pienamente riconoscersi nel patto democratico che ha fondato la Repubblica italiana proprio sulla rottura, non solo ideale ma anche storica e materiale, tra fascismo e antifascismo.

Accompagnati nell’avventura di governo da una maggioranza nella quale le forze che ancora considerano la Costituzione un riferimento irrinunciabile sono ridotte al lumicino di qualche sporadica personalità, le donne e gli uomini di Meloni, e Meloni stessa loro profeta, hanno deciso che è questo il momento di tentare il “salto”. Non per tornare al fascismo, ma per darsi una “loro” costituzione: atto di nascita di una nuova repubblica, della quale si possano sentire fondatori e non solo ospiti tollerati.

Ciascuna delle riforme che il governo Meloni sta facendo avanzare in Parlamento storpia una parte rilevante dell’ordinamento costituzionale e istituzionale del Paese. Ciascuna ha in sé una carica eversiva specifica, che occorre contrastare con ogni forza a disposizione: la proposta di riforma della magistratura e-radica in profondità i principi dell’indipendenza tra i poteri dello Stato; quella dell’autonomia differenziata contiene il detonatore che rischia di far esplodere la già complicata unità della nazione; l’elezione diretta del premier mette all’angolo la centralità del Parlamento quale luogo in cui vive e si esercita la sovranità popolare, che appartiene tanto alle maggioranze quanto alle minoranze.

Ripeto, ciascuna delle riforme proposte contiene in sé una pericolosa potenza eversiva. Ma l’esigenza di contrastarle, una per una, nei loro specifici tratti deformanti, non deve far perdere di vista il disegno generale che si intravede camminare al fondo, e che le forze democratiche, non solo quelle della sinistra, dovrebbero sentire il dovere di fermare ad ogni costo. Essendo la posta in palio quella (questa volta davvero) del passaggio dalla Repubblica democratica antifascista a una “seconda Repubblica”, fondata su un patto costituente segnato dall’egemonia e dall’impronta della destra post-fascista.

Sicuramente, Meloni è abile e sta mostrando indubbia capacità di giocare su un doppio registro: quello dai toni pacati e istituzionali, che esibisce in inglese ai vertici in cui gioca il proprio ruolo di premier; quello della destrorsa sfrontata, che alza i toni declamando le parole d’ordine più reazionarie (chissà perché le viene particolarmente bene in spagnolo, forse perché qualche nostalgia “franchista” emerge dal profondo). Ed è evidente che continuerà ad abusare di questa doppiezza, almeno sino a quando glielo consentirà, o glielo renderà conveniente, il contesto europeo ed internazionale nel quale è chiamata a muoversi.

Mi pare, tuttavia, sia venuta l’ora di derubricare definitivamente il dilemma, sul quale in molti ci siamo interrogati: se fosse il suo cammino diretto verso la moderazione o verso il restyling di un post-fascismo più attuale nei suoi tratti, ma sostanzialmente autoritario. La risposta pende vistosamente verso la seconda soluzione. E l’amicizia con Orban è molto più di un sentimento personale: è l’ammirazione verso un modello cui si tende, magari per assumerne la leadership continentale e non solo.

Per tutte queste ragioni, oltre alle quali ci si potrebbe fermare a ragionare a lungo anche sulle riforme sbagliate o mancate dal centrosinistra nei decenni che abbiamo alle spalle, occorre a mio avviso essere molto lucidi in questo momento: evitando di illudersi che sia possibile contrattare con l’attuale maggioranza qualche apertura di dialogo, qualche spiraglio di “miglioramento” di ciascuna delle riforme in campo. Soprattutto per quanto riguarda l’elezione diretta del premier, non sono mancate anche nel centrosinistra le voci invitano alla ricerca del confronto, magari richiamando le riforme che anche dalle nostre parti intendevamo o abbiamo provato a fare.

Ma era un’altra Italia, che non c’è più: e tutta l’attenzione che pure possiamo e dobbiamo porre nel tentativo di mitigare in sede istituzionale gli aspetti più deteriori del disegno in atto, non ci esimono dal dovere primario di cercare di fermare le destre e il loro obiettivo di stravolgere la Carta. Tentativo che, se andasse in porto, non sarebbe un semplice sfregio, ma marcherebbe il passaggio strutturale a un’altra storia: i cui scenari sono tanto inquietanti quanto difficili da immaginare.