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Se domani non torno, per Giulia l’oplita.

di Chiara Luisetto

Un’oplita, come quei fanti greci dall’armatura pesante, tenaci, dediti all’aiuto reciproco più che a gesta eroiche, indomiti nella battaglia. Una parola, tra quelle pronunciate da Gino Cecchettin il giorno dei funerali di sua figlia Giulia, ha contribuito a descrivere la giovane donna che era diventata. E forse proprio quell’aver dovuto crescere velocemente per la malattia della madre, conservando dolcezza e cuore aperto, ce l’ha fatta sentire più sorella, nipote, amica ogni giorno che passava durante quei sette giorni nei quali abbiamo sperato fosse riuscita a scappare, a salvarsi dal suo carnefice. Sette giorni nei quali tutti i luoghi comuni, le parole di superficie, le più comuni rassicurazioni sul suo ex fidanzato hanno popolato tv e stampa. “Non le farebbe mai del male”, “era solo un po’ possessivo”, “la normale gelosia tra ragazzi”, “è studioso”. Mentre una voce, potente, si alzava giorno dopo giorno a denunciare quanto Giulia aveva subìto negli anni, il perché avesse deciso di chiudere, il controllo a cui era stata sottoposta e che l’aveva spinta ad allontanare da sé quel figlio sano del patriarcato che l’aveva già uccisa.

Elena, che ci ha insegnato moltissimo in quei giorni, parlando di politica ed educazione, di rispetto e rivoluzione gentile, da compiere per fermare una scia di sangue alla quale si sono aggiunte poco dopo Rita, Meena, Vincenza e ancora, sempre in Veneto, Vanessa con il suo bambino in grembo, in un elenco senza fine. Davanti a loro una politica che prova a rilanciare, quasi disorientata dalla partecipazione così massiccia e giovane nelle piazze del 25 novembre, accelerando provvedimenti repressivi, rafforzando l’ammonimento, tentando qualche aumento di risorse estemporaneo per centri antiviolenza e case rifugio, più per reazione obbligata al dolore collettivo provocato dal femminicidio di Giulia che per la consapevolezza di un necessario cambio di approccio al problema. Basti pensare al carattere facoltativo delle novità introdotte in materia di educazione alle relazioni, alla scarsa attenzione alla formazione di coloro che operano nei diversi contesti di presa in carico delle vittime di violenza, al disorientamento di molte realtà operanti nell’ambito dell’antiviolenza a fronte dei nuovi criteri previsti dall’intesa stato-regioni che il prossimo marzo entrerà in vigore senza che siano previsti stanziamenti ulteriori, ad esempio per il richiesto servizio di call center h24.

Un quadro di azioni spezzettate, di fronte alle quali famiglie, scuole, terzo settore, media e istituzioni locali rischiano di tendere, come possono, solo alcuni fili, mentre è sempre più urgente il bisogno di una profonda interconnessione strutturale. Da dove partire? Dal programmare adeguate risorse per chi opera nella rete di sostegno; se penso al Veneto, a fronte delle 3450 donne che si sono rivolte ai centri antiviolenza e ai quasi 400 nuclei mamma-bambino ospitati nelle case rifugio nel 2021 (in crescita rispetto alle 3110 e ai 289 del 2020), vi sono 26 CeAv, 28 case e 38 sportelli che vivono con i medesimi contributi degli scorsi anni, sono associazioni ed enti che fanno salti mortali per retribuire adeguatamente il personale specializzato nel supporto psicologico e legale. E poi i tempi e gli spazi di azione; centri e case ancora attendono dalla regione le risorse spettanti per le attività svolte nello scorso anno e chiedono di poter entrare sempre più nelle scuole per costruire percorsi stabili di educazione all’affettività fin dalla più tenera età. Serve poter programmare, poter progettare con la certezza che la rete di soggetti coinvolti sia considerata centrale dalla politica, la quale comprenda l’importanza di agire nell’emergenza aprendo luoghi protetti per una pronta accoglienza diffusa e istituisca punti di riferimento negli atenei e nelle scuole secondarie, perché se è nel quotidiano che sono radicati possesso e violenza, è lì che vanno accolte e ascoltate coloro che li vivono.

Si parte allora dalle parole di Elena e Gino, dalla consapevolezza che se il problema è culturale, profondamente imbevuto di un patriarcato strisciante e pervasivo, incapace di tollerare la frustrazione di un distacco come lo è stato Turetta, che nei successi e nella libertà di Giulia ha visto riflessi i propri limiti senza saperli accettare, allora la rivoluzione non può che passare da strumenti culturali, da una chiamata alla corresponsabilità di tutte le agenzie educative, dalla maturità di istituzioni che mettano a sistema azioni preventive e di presa in carico solide.

Perché ci serve tutto questo come l’aria? Perché oggi più che mai, davanti ad una aggressività dilagante nelle parole, nei gesti, nella quotidiana rabbia che attraversa le nostre vite, è necessario sradicare schemi e parole serpeggianti in relazioni considerate normali, veicolate da messaggi quotidiani di controllo, frutto di una denigrazione mascherata da aiuto, di una insicurezza vestita da gelosia.

Uomini che sappiano la differenza tra cura e protezione e scelgano la prima, riconoscano valore e non vogliano possedere, costruiscano relazioni sane con l’altro non dipendenze ammalate di sé.

Per Giulia e per tutte le sorelle uccise.

Se domani non rispondo alle tue chiamate, mamma.
Se non ti dico che non torno a cena. Se domani, il taxi non appare.
Forse sono avvolta nelle lenzuola di un hotel, su una strada o in un sacco nero (Mara, Micaela, Majo, Mariana).
Forse sono in una valigia o mi sono persa sulla spiaggia (Emily, Shirley).
Non aver paura, mamma, se vedi che sono stata pugnalata (Luz Marina).
Non gridare quando vedi che mi hanno trascinata per i capelli (Arlette).
Cara mamma, non piangere se scopri che mi hanno impalata (Lucía).
Ti diranno che sono stata io, che non ho urlato abbastanza, che era il modo in cui ero vestita, l’alcool nel sangue.
Ti diranno che era giusto, che ero da sola.
Che il mio ex psicopatico aveva delle ragioni, che ero infedele, che ero una puttana.
Ti diranno che ho vissuto, mamma, che ho osato volare molto in alto in un mondo senza aria.
Te lo giuro, mamma, sono morta combattendo.
Te lo giuro, mia cara mamma, ho urlato tanto forte quanto ho volato in alto.
Ti ricorderai di me, mamma, saprai che sono stata io a rovinarlo quando avrai di fronte tutte le donne che urleranno il mio nome.
Perché lo so, mamma, tu non ti fermerai.
Ma, per carità, non legare mia sorella.
Non rinchiudere le mie cugine, non limitare le tue nipoti.
Non è colpa tua, mamma, non è stata nemmeno mia.
Sono loro, saranno sempre loro.
Lotta per le vostre ali, quelle ali che mi hanno tagliato.
Lotta per loro, perché possano essere libere di volare più in alto di me.
Combatti perché possano urlare più forte di me.
Perché possano vivere senza paura, mamma, proprio come ho vissuto io.
Mamma, non piangere le mie ceneri.
Se domani sono io, se domani non torno, mamma, distruggi tutto.
Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima.