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Quegli spari per zittire il prete anticamorra. Ma don Peppe parla ancora

di Toni Mira, per gentile concessione di Avvenire

“Don Peppino è un autentico sacerdote che ha seguito Gesù. Pochi giorni dopo la sua uccisione facemmo una riunione proprio a San Nicola e dissi che don Peppino era la nostra speranza per un nuovo futuro. Il sangue dei martiri genera nuovi cristiani e Peppino questo lo sta facendo con la sua morte e attraverso il tempo. Noi abbiamo raccolto il suo testimone e le cose sono cambiate. Oggi si può parlare apertamente di camorra senza tremare, senza abbassare la voce. Allora la parola “casalesi” era detta sotto voce, oggi no”. “Don Peppino era un prete, attaccato alla sua terra e ai giovani che erano la sua passione. Convinto che dovevamo fare quello e basta, e lui lo faceva con tutta la passione di cui era capace. Ma a essere prete spesso ci si scontra con i camorristi”. Così ricordano don Peppe Diana i suoi amici sacerdoti don Carlo Aversano e don Armando Broccoletti. Trenta anni fa erano parroci del Santissimo Salvatore e dello Spirito Santo a Casal di Principe. Don Carlo era stato vice rettore al seminario quando lo frequentava don Diana, che poi fu per quattro anni suo viceparroco, don Armando era il suo confessore. Entrambi furono tra i firmatari del documento “Per amore del mio popolo” distribuito nel Natale 1991, che tanto disturbò i camorristi. “La situazione era insostenibile – ricorda don Carlo -. Tante uccisioni, tanto sangue, anche degli immigrati che si mischiava al nostro. La presenza della camorra era asfissiante. C’era malessere, c’era lamento, ma bisognava fare qualcosa di concreto. Don Peppe in una riunione della Forania ci portò il documento dei vescovi campani del 1982 che era intitolato proprio “In nome del mio popolo non tacerò”. Ce lo fece leggere per passare ai fatti. Non bastavano le parole. Ci lavorammo sopra e fu preparato questo documento che presentammo alla comunità”. “Era indirizzato soprattutto ai giovani, perché aprissero gli occhi, perché costruissero il loro avvenire – è il ricordo di don Armando -. Non avemmo alcun dubbio nel farlo. Lo leggemmo in tutte le chiese. Fece scalpore. La gente era d’accordo ma non lo diceva ad alta voce”. Un documento al quale seguirono tanti fatti concreti. La reazione della camorra arrivò quel 19 marzo 1994. “E’ stato il giorno più lungo della mia vita – ci dice commosso don Carlo -. La morte di don Peppino mi venne annunciata mentre stavo salendo sull’altare per celebrare la messa del mattino, proprio come lui. Mi recai subito a San Nicola e vidi il suo corpo in una pozza di sangue. Un’immagine che non dimentico mai. Tornai in parrocchia e un signore mi fermò dicendo, “don Carlo l’hanno ucciso a causa delle donne”. Così avveniva la sua seconda uccisione. Mi fa ancora molto male”. Anche il ricordo di don Armando è molto forte. “Quasi tutte le mattine veniva a casa mia a fare colazione. Ma quella mattina toccò a me accorrere per primo. Lo guardai lì a terra e gli chiesi “perché a te?”. Se n’era andato un amico. Tra noi c’era incredulità. Non potevamo immaginare che fosse ucciso uno di noi”. Reazioni a quel documento se le aspettavano. “Dispetti, furti erano in conto. Ma non pensavamo mai che sarebbero arrivati ad uccidere. Ucciderlo in chiesa… pazzesco”. E “perché lui? Proprio l’ultimo arrivato. Forse perché era schietto e diretto, un vero casalese. E questo a qualcuno può dispiacere”. Così, ricorda anche lui, subito dopo l’omicidio cominciarono a girare strane voci. “Ci dissero “su don Peppino è uscita una cosa brutta”. Ce lo aspettavamo. La loro strategia la conoscevamo bene. Prima si uccide e poi si getta fango. Non potevano dire “lo abbiamo ucciso perché ci dava fastidio””. Ricordo e impegno. “Penso sempre a lui quando esco per la Messa. Mi torna in mente quell’immagine, di lui ucciso mentre stava per celebrare. Ma mi dà una spinta, mi aiuta a capire lo spirito missionario, a non adagiarmi sul quotidiano, così come era lui. A noi sacerdoti la morte di don Peppino ha dato una spinta forte a continuare con maggiore impegno. E non solo a noi”. Una scelta presa subito. “Telefonai al vescovo Gazza per dargli la notizia, ma quasi non riuscimmo a parlare per la commozione. Pochi giorni dopo mi scrisse un biglietto. “Porteremo sempre nel cuore don Peppino, mentre voi restate sulla breccia”. E lo abbiamo fatto. E’ un posto scomodo ma è il nostro posto, perché niente di comodo deve essere la nostra vita”, ci dice con convinzione il quasi ottantenne don Carlo. E così il suo coetaneo don Armando. “Peppino ci spinge ancora a fare qualcosa in più. Io lo sento sempre vicino. Niente avviene per caso. La nostra storia va raccontata sempre in senso positivo. Quel chicco di grano ha davvero dato tanti frutti. Tanti che si ispirano a Peppino. Lui ora prega per noi e noi portiamo avanti le sue battaglie”. Ne è convinto anche Don Carlo: “Una parte di me è morta con Peppino ma è resuscitato invece l’impegno in mezzo alla gente per testimoniare Cristo. Come Chiesa non dobbiamo mai smettere di combattere il male che è sempre presente. Dobbiamo essere sempre capaci di proporre il positivo”. Don Armando vede il cambiamento nei giovani che “stanno sempre più prendendo coscienza. E io mi impegno perché cresca la consapevolezza che un avvenire di bene e di pace è in mano a loro, dobbiamo solo invogliarli, sostenerli, senza farli scoraggiare. Questo è il cammino da fare. Il messaggio che lanciamo nel 1991 è ancora attualissimo. L’egoismo e l’individualismo sono dentro di noi e se non abbiamo la voglia di combatterli cresceranno. Serve un impegno giorno per giorno. Non basta due o tre volte l’anno. Non è così che si cambia un territorio”.