Da www.huffingtonpost.it
Il giudizio double face che sta emergendo in queste ore sull’imposizione dei dazi al 15% all’ Unione Europea da parte degli Usa di Trump non deve sorprendere. Hanno prevalso ragioni geopolitiche sugli interessi diffusi del libero mercato. Sotto la pressione delle forze sovraniste e dell’estrema destra la presidente della Commissione Ursula Von der Leyen si è arresa di fronte alle richieste del tycoon rinunciando ad una trattiva nella quale sarebbero dovute emergere anche le contromisure sul fronte europeo. Così non è stato financo a spacciare come vittoria la percentuale concordata sui dazi. Certo, è ovvio, 15% è sempre meglio di 30%, ma è anche vero che questo non è un accordo a parità zero come, da più parti, a cominciare dal mondo economico e delle imprese, si riteneva dovesse essere.
Per di più nell’accordo unilaterale, a parte alcuni dettagli di deroga che devono ancora emergere ma secondari rispetto all’intesa generale, Trump porta a casa molto di più. L’Unione Europea ha accettato per conto dei suoi 27 paesi di acquistare energia ed armi per 750 miliardi di dollari dagli Stati Uniti a cui si sommano 600 miliardi di investimenti. Acquisti ed investimenti che visti i settori e le materie interessate (petrolio, gas e armi) vanno in direzione opposta rispetto agli orientamenti assunti dall’Unione Europea. Allo stesso tempo l’Unione Europea non imporrà dazi sulle importazioni di merci statunitensi. Insomma l’accordo trovato, o meglio dire imposto, non è solo asimmetrico ma rappresenta una vera e propria resa incondizionata le cui conseguenze saranno gravi se non interverranno sostegni ed aiuti che colmeranno le ripercussioni economiche. Sostegni ed aiuti che pagheranno tutti i cittadini a cominciare dall’eventualità, non certo remota, che la drastica riduzione del fatturato porti al ridimensionamento della forza lavoro attualmente in attività. Un capolavoro di diplomazia che solo i sovranisti europei e la destra italiana, con in testa Meloni e Salvini, potevano esaltare come salvifico piegandosi a motivazioni squisitamente politiche e di alleanza. Un accordo le cui premesse di sudditanza si sono viste già nei mesi scorsi con ulteriori concessioni ottenute dagli Stati Uniti: dall’innalzamento al 5% del Pil della spesa militare per i paesi della Nato all’esenzione delle aziende americane dalla nuova tassa globale sulle multinazionali.
L’accordo ci consegna anche una Europa sostanzialmente divisa e indebolita, come non avveniva da decenni e con giudizi difformi su quanto è avvenuto e sulle prospettive. È in atto, appare chiaro, il tentativo di smantellare l’unità dell’Europa, quella della civiltà del diritto, della solidarietà e della pace, per tornare all’Europa dei nazionalismi. La stessa discussione sul bilancio europeo e sul fondo comune, azzerando la Pac, segnala questo nuovo orientamento che va contrastato con una forte iniziativa politica delle forze progressiste e democratiche e con riforme strutturali che pieghino gli egoismi in campo per il perseguimento di obiettivi comuni.
Nel frattempo c’è da affrontare la sciagura dei dazi che richiede tempestività e risorse. A dirlo non sono i feroci bolscevichi dell’opposizione ma le forze e le organizzazioni delle imprese, a cominciare da Confindustria. Il presidente Orsini segnala che “l’Europa ha preso una sberla”. “Se ai dazi si somma pure la svalutazione del dollaro rispetto all’euro, che è del 12-13% dall’inizio dell’anno e in prospettiva potrebbe arrivare al 20, il problema per noi diventa enorme – sottolinea Orsini. Abbiamo stimato 22,6 miliardi di euro di minori vendite negli Stati Uniti. L’impatto più importante sarebbe per i settori dei macchinari, della farmaceutica e dell’alimentare, e poi a scendere per tutti gli altri”.
Gli fa eco la CNA per la quale i dazi sono una tassa ingiusta e sproporzionata che penalizza il Made in Italy ma avrà riflessi negativi anche sull’economia americana. Per LegaCoop Agroalimentare non si può fare finta che il tema dei dazi sia solo una questione “contabile”, soprattutto tenendo conto del deprezzamento del dollaro negli ultimi mesi e della relativa incertezza che un metodo negoziale incomprensibile ha reso un gigantesco problema per le nostre esportazioni.
I conti reali li fa Federvini: “Con i dazi al 15% il bicchiere rimarrà mezzo vuoto per almeno l’80% del vino italiano. Il danno che stimiamo per le nostre imprese è di circa 317 milioni di euro cumulati nei prossimi 12 mesi, mentre per i partner commerciali d’oltreoceano il mancato guadagno salirà fino a quasi 1,7 miliardi di dollari. Il danno salirebbe a 460 milioni di euro qualora il dollaro dovesse mantenere l’attuale livello di svalutazione”. A inizio anno la bottiglia italiana che usciva dalla cantina a 5 euro veniva venduta a 11,5 dollari; ora, tra dazio e svalutazione della moneta statunitense, il prezzo della stessa bottiglia sarebbe vicino ai 15 dollari. Con la conseguenza che, se prima il prezzo finale rispetto al valore all’origine aumentava del 123%, da oggi lieviterà al 186%. Per l’Osservatorio Uiv, il conto si fa molto più salato alla ristorazione, dove la stessa bottiglia da 5 euro rischierà di costare al tavolo, con un ricarico normale, circa 60 dollari.
E di certo non basterà il miliardo annunciato urbi et orbi dal ministro Francesco Lollobrigida con il collegato agricolo. Soldi peraltro sottratti ai fondi di coesione. Risorse per affrontare talune emergenze che non vi è dubbio siano necessarie, ma se non si affrontano questioni strutturali, ben più importanti rischiano di essere una pezza peggiore del buco. In questo caso l’emergenza è ben più drammatica. Come si penserà di affrontarla? Con quali strategie, politiche e risorse? Avendo anche l’accortezza di fronteggiare la possibilità che visto il rialzo dei prezzi gli spazi di mercato vengano coperti da produzioni provenienti da altri paesi non comunitaria la cui qualità è tutta da verificare.
Ciò che non si può fare è minimizzare come sta facendo il governo italiano. Siamo usciti da crisi importanti governando i processi con spirito unitario e rispondendo agli interessi generali del Paese. Per farlo occorre dismettere le giacche di amici supini di Trump e mettere quelle tricolori dei nostri concittadini. Serve ridare fiato alla domanda interna e sostenere l’internazionalizzazione delle imprese verso nuovi mercati, rimodulare l’accesso al credito, usare strumenti efficaci come le ZES. Serve avere una politica industriale su cui confrontarsi con le parti sociali e il Parlamento. Quello che la destra non fa.