di Angelo Schillaci
Con perfetto tempismo, la reazione del Governo alla decisione della Corte dei conti – che ha rifiutato il visto di legittimità alla delibera CIPESS sul Ponte sullo Stretto – è arrivata nelle stesse ore dell’approvazione finale, da parte del Senato, della riforma costituzionale della giustizia.
Le due questioni sono più collegate di quel che potrebbe sembrare. Infatti, la denuncia dell’invasione del potere giudiziario (in questo caso poco centrata, trattandosi di un intervento della Corte dei conti in sede di controllo) nel campo della decisione politica rivela l’insofferenza della maggioranza e del Governo verso limiti e controlli. Ed è inutile ribadire che non si tratta di invasione, ma di un controllo di legalità, tanto più doveroso quando sono in gioco non solo la sicurezza (anche ambientale) ma anche una ingente somma di denaro pubblico, cioè di tutte e tutti noi.
Anche la riforma costituzionale della giustizia è un segnale di questa insofferenza.
Dietro lo schermo della separazione delle carriere, infatti, la maggioranza e il Governo portano avanti un disegno di radicale ridimensionamento della magistratura e, quindi, del potere giudiziario e del sistema costituzionale delle garanzie.
Va detto in modo molto chiaro: la separazione delle carriere – tema sul quale la discussione è più che legittima, e ha attraversato negli anni anche il centrosinistra e il Partito Democratico – è solo la punta di un iceberg che si dirige ormai a grande velocità verso l’edificio costituzionale.
In una vera e propria frode delle etichette, la riforma costituzionale appena approvata dalla maggioranza spacca in due la magistratura, rompe l’unità della cultura della giurisdizione e indebolisce il potere chiamato a garantire la legalità e i diritti delle persone di fronte agli abusi eventualmente posti in essere da chi, momentaneamente, governa.
La riforma intende la separazione delle carriere in modo radicale: dalla previsione di due distinti concorsi – e quindi di due diversi percorsi di formazione dei magistrati – fino allo sdoppiamento del CSM in due distinti organi di autogoverno, entrambi sorteggiati. Dunque, lì dove la Costituzione individua un potere neutro, indipendente e soggetto soltanto alla legge – come solido argine a ogni abuso – la riforma ne costruisce due, separati, che non comunicano tra loro. Più piccoli e più deboli.
L’indebolimento risulta con assoluta evidenza dal sorteggio dei componenti dei due CSM: dietro alla scusante del superamento delle cd. “correnti” (che per nulla verranno superate dal sorteggio, a dirla tutta) vi è invece una mortificazione dell’autonomia della magistratura, del pluralismo culturale che attraversa e deve legittimamente continuare ad attraversare la giurisdizione.
Non è la separazione delle carriere in sé ad andare contro la Costituzione: anzi, come ritenuto dalla Corte costituzionale fin dal 2000, la Costituzione non la esclude affatto e una più netta distinzione delle funzioni tra magistratura giudicante e requirente è in linea con la struttura del processo penale, così come delineata dal Codice del 1989 e con il testo dell’articolo 111 della Costituzione, come riformato nel 1999. E, d’altra parte, già la cd. riforma Cartabia ha provveduto a rendere sostanzialmente rarissimo il passaggio da una funzione all’altra, ponendo limiti stringenti a questa possibilità.
Quel che stride con la Costituzione e deve essere contrastato con impegno e determinazione è l’attacco all’equilibrio tra i poteri, che questa riforma realizza: lo svuotamento di una fondamentale istanza di garanzia, frutto di insofferenza verso il limite e dell’illusione che vincere significhi comandare, anziché governare in un sistema equilibrato di pesi e contrappesi.
Serviva, tutto questo, per realizzare l’obiettivo della separazione delle carriere? No, le ragioni di questo intervento sono evidentemente altre.
D’altra parte, è sufficiente guardare al metodo con cui è stata discussa e approvata la riforma: per la prima volta nella storia della Repubblica un disegno di legge di revisione della Costituzione, presentato dal Governo, è passato attraverso l’esame parlamentare senza l’approvazione di un solo emendamento. E non certo perché non ne siano stati presentati; o non ci sia stata discussione (anche, in verità, dentro la maggioranza). Ma perché l’indicazione del Governo, fin dalle prime battute dell’esame parlamentare, è stata molto chiara: fare in fretta e senza modifiche.
Rimane un’ultima domanda, cruciale: è questa la riforma che serviva alla giustizia, nel nostro paese? Mi pare evidente che non sia così: la riforma non incide sui tempi della giustizia e sullo smaltimento dell’arretrato, non incide sull’accesso effettivo alla giurisdizione (cioè sui costi dei processi per i cittadini che devono attraversarli), non incide sulla condizione delle detenute e dei detenuti nel nostro Paese e sul tasso di sovraffollamento delle nostre carceri, ormai superiore al 135%. Per affrontare questi problemi servono risorse – in termini di strutture e personale – e serve un approccio laico e ragionevole alle misure alternative alla detenzione e alle misure di clemenza. Di tutto questo mi auguro che il paese riesca a discutere, nel corso della campagna referendaria. Senza strumentalizzazioni ideologiche e con tutta la cura che un bene prezioso come la giustizia merita.