di Filippo Simeone
Nel 2025 gli Stati Uniti hanno riscoperto la piazza come forma di protesta politica.
Prima il 14 giugno, poi il 18 ottobre, milioni di persone sono scese per le strade sotto un unico slogan: “No thrones. No crowns. No kings.” — Niente troni, niente corone, niente re.
È il No Kings Day, una mobilitazione che in pochi mesi è diventata un appuntamento fisso del dissenso americano, una risposta collettiva alla deriva autoritaria del nuovo corso trumpiano.
Mentre a Washington D.C. andava in scena la parata militare per il 250° anniversario dell’Esercito americano, con Donald Trump in prima fila, in oltre 2.600 città si sono svolte manifestazioni pacifiche per riaffermare un principio semplice ma essenziale vedendo le svolte autoritarie ed autoritariste degli ultimi anni: la democrazia americana non appartiene a un uomo solo.
Le piazze del No Kings Day non nascono nel vuoto.
Certo, Trump ha vinto le elezioni presidenziali in modo netto e chiaro: voto dei delegati, voto degli Stati e anche voto popolare, quindi è nella condizione politica insindacabile, ma ho vinto le elezioni, non una corona e un trono. Le proteste sono la risposta diretta a un potere che ha smesso di governare per rappresentare e ha cominciato a governare per dominare.
Negli ultimi mesi, l’amministrazione Trump ha approvato misure che hanno colpito migranti, donne, comunità LGBTQ+ e lavoratori, alimentando la retorica dell’“ordine morale” e la politica della paura. Ma la critica più profonda rivolta dai manifestanti riguarda l’uso spregiudicato dei poteri presidenziali: ordini esecutivi di massa, decreti firmati di notte, direttive che aggirano il Congresso e persino le Corti.
Trump sta forzando i limiti della Costituzione americana non solo sul piano formale, ma su quello sostanziale: sta riscrivendo il rapporto tra istituzioni e cittadinanza, trasformando la presidenza in un potere personale, vendicativo e carismatico. Dietro la propaganda del “fare”, si nasconde un disegno preciso: smantellare i contrappesi, isolare il dissenso, umiliare chi non si allinea.
Gli Stati Uniti non sono più un’unica democrazia federale, ma due Paesi paralleli: da un lato l’America urbana e multietnica, che resiste e protesta; dall’altro l’America rurale e conservatrice, che si riconosce nel mito dell’uomo forte.
È una frattura culturale prima ancora che politica, e si riflette in un ecosistema mediatico totalmente polarizzato: Fox News e Truth Social recitano la parte dell’organo ufficiale del potere, alimentando la paura e il risentimento; dall’altra parte, MSNBC e i canali progressisti parlano a un pubblico già convinto.
La conseguenza è un cortocircuito informativo: ogni campo parla a sé stesso, mentre la verità diventa un’opinione di parte.
In questo clima, anche la libertà di stampa è sotto attacco diretto. Un esempio? Il video dei giornalisti che lasciano il Pentagono con gli scatoloni in mano, dopo il “walk out” contro il nuovo regolamento imposto dal Segretario alla Difesa Pete Hegseth, è diventato il simbolo di questa deriva. Le nuove norme avrebbero vietato la pubblicazione di qualsiasi notizia non approvata dal Dipartimento della Difesa: una censura preventiva che, di fatto, avrebbe reso illegali le fughe di notizie, le fonti riservate e il giornalismo investigativo.
Un tentativo evidente di controllare l’informazione militare e spegnere l’indipendenza dei media — un attacco frontale a uno dei pilastri fondativi della democrazia americana.
Le principali testate, dal New York Times al Washington Post, hanno risposto con una scelta radicale: rinunciare agli accrediti piuttosto che diventare megafoni del potere. Un gesto di resistenza civile, in un contesto in cui ogni spazio di libertà sembra destinato a restringersi.
La stessa dinamica si ripete sul piano culturale e pop, come ad esempio la vicenda del comico Jimmy Kimmel per battuta nel suo programma televisivo. Trump ha chiesto pubblicamente ad ABC di licenziarlo “per mancanza di rispetto”, e alcuni sponsor hanno ritirato la pubblicità. Un episodio apparentemente marginale, ma politicamente rivelatore: in un Paese dove il potere non tollera più la satira, la libertà non è più un diritto, ma un rischio personale.
L’America di Trump è sempre meno una Repubblica e sempre più un culto politico: un sistema costruito sull’obbedienza e sul timore, dove il dissenso viene disumanizzato e l’ironia criminalizzata.
E i “Magni” della Storia cosa facevano per affermare la loro influenza personale? Creavano monumenti che permangono nei secoli. Trump non è da meno. Come ogni buon potenziale monarca assoluto, ha mostrato con orgoglio, nello Studio Ovale, il plastico del suo nuovo progetto monumentale: un arco gigantesco che dovrebbe sorgere nel cuore di Washington.
Ufficialmente si chiamerà Independence Arch, ma tutti già lo chiamano “Arc de Trump”, per la sua evidente ispirazione all’Arc de Triomphe di Parigi. Una parodia in chiave americana del potere assoluto, costruita non per celebrare la libertà, ma per eternare sé stesso.
Il messaggio è chiaro: non più la Casa Bianca come simbolo della Repubblica, ma il palazzo come estensione dell’io. È l’idea imperiale del potere che plasma la città a propria immagine e misura, trasformando l’architettura civile in propaganda. Un monumento non alla libertà, ma alla sottomissione estetica del popolo alla figura del leader.
La protesta del ridicolo contro il Re
La parentesi politica, però, si è mescolata con la protesta del ridicolo: rane e unicorni gonfiabili, cartelli autoprodotti, cortei allegri quasi come un Carnevale in migliaia di città che hanno visto circa 7 milioni di persone partecipare nei modi più assurdi.
Le folle più imponenti si sono viste a New York, Chicago e Washington D.C., roccaforti dem, ma partecipazioni significative si sono registrate anche in molte città governate dai repubblicani. Una marea colorata e pacifica ha attraversato il Paese, smentendo le previsioni catastrofiste dell’establishment conservatore e dei media trumpiani, che avevano annunciato violenze e disordini.
Niente “bagni di sangue”, niente “falangi antifa” pagate da George Soros, come paventavano le destre più radicali. In piazza non c’erano “i sostenitori di Hamas”, come li ha chiamati con disprezzo lo speaker della Camera Mike Johnson, ma cittadini comuni, spaventati da uno stile di governo che sentono sempre più imperiale e distante. Persone che hanno scelto di difendere la democrazia con la gioia, l’ironia e la presenza fisica, non con la rabbia o la violenza.
Ma perché travestirsi? Per cominciare, c’è la questione della sorveglianza. Gli americani sono sempre più consapevoli che, quando protestano, vengono osservati dalle autorità. Travestirsi da rana dei cartoni animati – o da qualunque altra creatura bizzarra – rende più difficile identificare i volti.
Ma c’è anche il fattore assurdità. I manifestanti in costume ribaltano l’immagine dei dimostranti vestiti di nero, spesso demonizzati da Trump. Nessuna rana buffa e nessun unicorno arcobaleno possono essere affiancate all’immagine di black block o di altri antagonisti nelle manifestazioni. Il gesto del travestimento, quindi, non è solo ironico: è un atto politico di resistenza visiva e simbolica, che trasforma la paura della sorveglianza in creatività collettiva.
A fine settembre, mentre il Presidente cercava di dispiegare la Guardia nazionale dell’Oregon a Portland in risposta alle proteste davanti al centro ICE della città, aveva dichiarato che “c’è l’anarchia là fuori”. Il 20 ottobre, la Corte d’appello del Nono Circuito ha revocato il blocco che impediva a Trump di dispiegare la Guardia nazionale a Portland, con un voto di 2 a 1. La giudice Susan Graber, in dissenso, si è schierata apertamente con le “rane”: “Dal momento che i manifestanti di Portland sono noti per presentarsi in costumi da pollo, da rana gonfiabile o perfino nudi per contestare i metodi dell’ICE”, ha scritto, “la decisione della maggioranza – che accetta la descrizione governativa di Portland come zona di guerra – può solo apparire assurda.”
L’amministrazione Trump non si è fatta attendere in un mondo in cui la propaganda è h24 e ha reagito alle proteste con toni apertamente provocatori. Lo stesso Trump ha rilanciato sul suo profilo clip satiriche create con l’AI, in cui viene mostrato mentre bombarda con un jet militare i manifestanti con del liquame organico.
Per citare un meme di questi mesi: “Absolute Cinema”, ma è un cinema dell’orrido lo spettacolo che si vede sui social.
Il No Kings Day, per concludere, non è solo una protesta, ma una diagnosi: la più antica Repubblica moderna, nata da una ribellione contro il re, si scopre oggi prigioniera di una democratura che ne imita i riti e i simboli. La crisi non riguarda solo Trump, ma l’idea stessa di democrazia, che si svuota quando la libertà diventa fedeltà e la partecipazione si riduce ad obbedienza.
Le rane e gli unicorni delle piazze americane difendono il diritto di ridere del potere, cioè la forma più radicale di libertà. Perché una democrazia che non tollera più l’ironia ha già cominciato a temersi — ed è proprio l’ironia, alla fine, a far crollare ogni trono.
Come scriveva Hannah Arendt ne Le origini del totalitarismo (1951):
“Ogni volta che la verità dei fatti diventa opinione, la libertà è già in pericolo.”
Oggi, quel pericolo ha cambiato volto: viviamo immersi in un ecosistema di post-verità algoritmica, dove tutto è manipolabile. E l’epoca della post-verità non è solo un problema cognitivo: è un problema di libertà. Perché senza fatti condivisi, nessuna libertà è più difendibile.
E da questa parte dell’Atlantico, dovremmo imparare la lezione. Perché la tentazione del “re eletto” non è solo americana: è già tra noi, travestita da efficienza, premierato e sovranità nazionale.
La democrazia, in fondo, non muore con un colpo di Stato: muore quando smette di credere nella verità — e quando i cittadini, invece di ridere del potere, iniziano ad applaudirlo.