di Marco Ciarafoni
Il dopo referendum, con il quorum fallito, ha aperto di nuovo una discussione all’interno della sinistra che è bene fare ma lontano da ipotesi di resa dei conti, che aggraverebbero ulteriormente la situazione. Tantomeno non vanno prese scorciatoie pensando che basterà modificare regolamenti e procedure per ridare credibilità all’istituto referendario senza affrontare alle radici la grande questione democratica dell’astensionismo.
Di contro occorre partire da una considerazione preliminare.
Nella società contemporanea, sempre più frammentata, polarizzata e spesso governata dalla logica istantanea dei social media e dell’improvvisazione, la sinistra italiana fatica a ritrovare la propria traiettoria. Ha progressivamente perso la capacità di rappresentare la propria visione dentro la precarietà crescente e la disarticolazione esistenziale che caratterizza la vita quotidiana di milioni di persone. Ma, soprattutto, ha smarrito ciò che per una forza progressista rappresenta il fondamento stesso della propria esistenza: il rapporto autentico e profondo con il popolo. Senza radicamento popolare, la sinistra non solo si indebolisce, ma cessa di esistere come forza storica di trasformazione.
Il Partito Democratico, oggi principale forza del centrosinistra, vince nei centri storici delle grandi città, ma viene sistematicamente travolto nelle periferie urbane, nelle aree interne e nelle zone di disagio sociale. Ed è proprio in questi luoghi — dove si concentrano povertà, precarietà, esclusione e angoscia sociale — che la sinistra dovrebbe stabilmente abitare. Non come presenza episodica, ma come presidio costante di ascolto, di solidarietà, di proposta concreta. Deve essere parte integrante del conflitto sociale, capace di trasformare il disagio in progetto, la disperazione in speranza collettiva.
Non può esserci sinistra senza una forte e aggiornata proposta di giustizia sociale. Occorre riaffermare con forza il valore della memoria storica — di ciò che è stato e di ciò che non deve più essere — come bussola etica e politica. In questa fase storica, segnata da una crisi sistemica che alimenta egoismi nazionali, pulsioni autarchiche, rigurgiti sovranisti e il ritorno di nazionalismi regressivi, è indispensabile che la sinistra rafforzi i pilastri democratici, parli con autorevolezza di pace nel tempo dei conflitti e definisca un nuovo paradigma di sviluppo che coniughi qualità, sostenibilità ambientale e giustizia redistributiva.
Serve una sinistra che bandisca il culto dell’ego e l’interesse personale, ponendo alla base dell’agire politico un codice etico fondato su trasparenza, rigore morale e servizio al bene comune. Una sinistra capace di non rincorrere i populismi o le mode ideologiche, ma che assuma la scienza e l’interesse collettivo come metro delle proprie scelte, anche quando esse interrogano coscienze e sensibilità. Il vero riformismo non consiste nel mediare al ribasso, ma nella capacità di affrontare problemi complessi componendo sintesi alte, coraggiose e innovative.
In tal senso, la sinistra deve ricostruirsi come comunità politica, capace di accogliere e valorizzare il pluralismo interno, dove ciascuno possa contribuire alla definizione dei programmi, respingendo l’idea autoreferenziale di leadership verticistiche e autorevoli per investitura. Solo in questo modo si potrà ridare senso alla militanza, ricostruire fiducia nel progetto collettivo e contrastare quella crescente disaffezione verso la politica e le istituzioni che nutre astensionismo e delegittimazione democratica.
Del resto, non saranno nuove leggi elettorali o regole di ingegneria istituzionale ad arginare il distacco dei cittadini: serve una vera rifondazione della funzione e della missione dei partiti. Senza partiti vitali e radicati, il rischio concreto è l’avanzata di modelli plebiscitari, fondati sull’uomo forte o sul venditore di illusioni.
La sinistra di cui c’è bisogno oggi non può limitarsi a vivacchiare nell’attesa di alleanze numeriche occasionali per inseguire qualche possibilità di successo elettorale. Deve partire dai dati concreti della condizione sociale del Paese e tradurre in programma e mobilitazione la visione di un mondo più giusto e più stabile. E i dati sono impietosi:
Povertà e esclusione sociale: secondo l’ISTAT, nel 2024 il 23,1% della popolazione italiana risulta a rischio di povertà o esclusione sociale (in aumento rispetto al 22,8% del 2023), condizione che coinvolge circa 13 milioni di cittadini.
Accesso alle cure sanitarie: sempre nel 2024, quasi 6 milioni di persone hanno dovuto rinunciare a prestazioni sanitarie; 4 milioni lo hanno fatto per i tempi di attesa eccessivi, con un incremento del 51% rispetto al 2023.
Salari reali: dal 2008, l’Italia ha registrato una perdita di potere d’acquisto dei salari del -8,7%, la peggiore performance tra i Paesi del G20. Per confronto: in Francia i salari reali sono aumentati del 5%, in Germania del 15%.
Precarietà esistenziale e morti evitabili: ogni giorno in Italia si registrano 4 morti sul lavoro, 1 decesso al giorno nelle carceri, un femminicidio ogni 3 giorni. 3 milioni di famiglie vivono stabilmente sotto la soglia di povertà.
Senza dimenticare il disagio dei cittadini che oggi non riescono più a rapportarsi con le istituzioni anche solo per la vita concreta di tutti i giorni, dovuto alla burocrazia asfissiante. Così come sono evidenti le criticità nella pubblica amministrazione e nel lavoro svolto dai pubblici dipendenti che sempre più non avvertono la responsabilità di tenere conto degli interessi generali.
Questi numeri da soli dovrebbero indicare con chiarezza l’agenda prioritaria su cui la sinistra dovrebbe concentrare la propria azione. Eppure, spesso assistiamo a un progressivo slittamento del discorso politico su tematiche secondarie che, pur meritevoli di attenzione, non possono surrogare le grandi questioni sociali, economiche e redistributive. Parte della sinistra urbana sembra talvolta concentrarsi su battaglie identitarie minoritarie — dal feticismo per i rituali di visibilità a eventi simbolici, fino a un certo animalismo iperumanizzante — dimenticando che il popolo chiede ben altre risposte: lavoro stabile, sanità pubblica efficiente, casa accessibile, istruzione di qualità, sicurezza sociale.
Il rischio evidente è che la rappresentanza della sinistra si consolidi attorno a un bacino elettorale del 20-23%, incapace di farsi motore di un’alternativa politica ampia e vincente, lasciando campo libero alle destre e alimentando ulteriormente il senso di disillusione generale. In conclusione, la sinistra del futuro dovrà avere il coraggio di un grande ripensamento strategico e organizzativo. Non servono operazioni di maquillage, né meri aggiustamenti tattici. Serve una nuova architettura ideale e pragmatica: fondata sul radicamento sociale, sull’ascolto reale del disagio diffuso, sull’elaborazione di progetti concreti di emancipazione collettiva, sulla fluidità del suo impegno nelle diverse articolazioni sociali. Una sinistra che sappia governare la complessità e, al contempo, semplificare la vita delle persone. Solo così potrà tornare ad essere non semplicemente un’opzione auspicabile, ma la forza propulsiva di un vero cambiamento.