di Immafederica Refuto
È diventato quasi un luogo comune: l’immigrato è il capro espiatorio di tutte le difficoltà italiane. Un individuo privo di diritti, invisibile, accusato di essere la causa di crimini e disagi.
Una narrazione tossica, alimentata da chi preferisce offrire un bersaglio facile invece di affrontare i problemi reali che ci riguardano tutti. Questa narrazione riduce la complessità del fenomeno migratorio a un semplice problema da risolvere, da contenere, da respingere. Ma l’immigrazione non è un’eccezione da contenere.
È una regola della storia umana, strutturale, fisiologica, ineludibile. I migranti di oggi sono gli stessi che ieri hanno costruito ponti, raccolto frutti, curato terre. Gli stessi che ieri hanno contribuito alla crescita e alla ricchezza del nostro paese. E noi stessi, con il nostro passaporto italiano in tasca, siamo figli e nipoti di migranti. Sostenere che si possa “eliminare l’immigrazione” è una consapevole bugia. Crederci è follia!
Le politiche attuali, che limitano i diritti degli immigrati e li confinano nei CPR – vere e proprie prigioni “amministrative” – rispondono più alla propaganda che alla realtà. Lì nei CPR non si punisce un reato: si punisce un desiderio. Il desiderio di vivere in una condizione di vita migliore.
Lì si smantella il concetto stesso di dignità umana. Eppure sappiamo che un altro modo è possibile.
Comuni come Riace o Acquaformosa lo hanno dimostrato: l’accoglienza può essere un’opportunità concreta e desiderabile, non solo un atto di generosità. In molte aree interne, come nel paese di Castelpoto, i figli delle famiglie immigrate hanno salvato scuole destinate a chiudere: senza di loro non si sarebbe raggiunto il numero minimo per mantenerle attive. Non si tratta di carità. Si tratta di sopravvivenza culturale. Di futuro.
All’opposto, esempi come Molenbeek ci insegnano una lezione amara: l’abbandono e la ghettizzazione creano le condizioni perfette per il malessere, l’isolamento e la radicalizzazione.
Dove si abbandona, si crea rancore. Quando non si costruiscono ponti, si scavano fossati.
Ma non possiamo far finta che tutto questo non stia accadendo. Restare in silenzio di fronte a tutto questo non è solo un errore morale, è un pericolo per tutti noi. La storia ce lo ha già mostrato, con brutale chiarezza: nel momento in cui si iniziano a erodere i diritti di una minoranza, è questione di tempo prima che quella logica repressiva si allarghi a tutti. Prima gli immigrati, poi le donne, poi gli studenti, poi i lavoratori, poi i giornalisti, poi gli imprenditori e poi chiunque osi alzare la voce.
La memoria storica del secolo scorso non può essere ignorata: il silenzio complice ha spalancato le porte all’orrore.
In un momento storico in cui il Governo ci travolge con emergenze costruite ad arte, l’immigrazione rischia di sembrare una non-emergenza. E forse, sotto certi aspetti, lo è davvero.
Questa sensazione nasce da un dibattito pubblico ormai appiattito, impoverito, in cui i diritti sono scomparsi dall’orizzonte del discorso collettivo. Sentiamo venir meno proprio quei diritti fondamentali e condivisibili universalmente: la democrazia, la libertà di espressione, la solidarietà.
Queste conquiste non sono eterne, vanno difese, ogni giorno. Difendere queste conquiste non è un atto sobrio o dimesso. È un inno alla gioia. Difenderle significa anche tornare ad animare chiassosamente il dibattito pubblico.
Fino a pochi anni fa discutevamo di Step-Child Adoption, di testamento biologico, di conquiste nuove da immaginare.
Oggi ci ritroviamo a difendere il diritto stesso di parlare. Il diritto di esprimere idee. Il diritto di esistere nello spazio pubblico.
Ma non dobbiamo farci fregare. Non dobbiamo accettare il silenzio come nuova normalità. Dobbiamo continuare, a testa alta, a parlare di tutto. Anche di ciò che sembra scomodo. Anche di ciò che sembra “passato di moda“. Anche, soprattutto, di immigrazione.
Giustizia sociale significa rifiutare l’idea che ci siano vite e diritti di serie A e di serie B. Significa rifiutare di essere spettatori. Significa scegliere, ogni giorno, da che parte stare.
Chi difende i diritti degli altri non perde i propri. Li rafforza. I diritti non sono una somma da spartire: sono una forza che cresce solo se condivisa. Ogni diritto riconosciuto è un diritto difeso per tutti. Ogni dignità rispettata è una diga contro la deriva della disumanità.
Per questo dobbiamo tornare ad animare, anche chiassosamente, il dibattito pubblico. Per questo dobbiamo continuare a parlare, a discutere, a reclamare spazi di parola. Ciò che dimentichiamo oggi, sarà il bersaglio più facile domani e quel capro espiatorio descritto all’inizio di questa riflessione, domani potrebbe essere ognuno di noi.