di Nicola Zingaretti
Le caratteristiche del bilancio di previsione proposto dalla Commissione europea meritano una riflessione.
C’è qualcosa di profondo che mette a rischio l’Europa ed è importante comprendere bene cosa sta avvenendo per costruire una risposta adeguata.
Siamo talmente abituati alla civiltà del diritto e alla pace da aver dimenticato che in realtà gli europei per centinaia di anni si sono fatti le guerre a vicenda.
La storia d’Europa è una storia di scontri, massacri, distruzioni e indicibili crimini. Quando poi gli europei non si combattevano tra di loro, sono andati in giro per il mondo a depredare altri popoli.
Tuttavia, l’Europa è stata anche molto altro: la civiltà, la cultura, l’arte, il diritto. Questo lo sottolineiamo spesso. E il resto che purtroppo viene rimosso. Compresa una riflessione profonda sulle due guerre mondiali, che sono nate in grembo al vecchio continente, per poi incendiare l’intero mondo.
La frase ripetuta dalla Presidente Giorgia Meloni: “Se vuoi la pace prepara la guerra” è empiricamente errata. Il riarmo inevitabilmente produce la guerra. Un esito, purtroppo, permanente della nostra storia. Negli ultimi mille anni l’Europa, infatti, solo per una piccola parentesi, ha vissuto nella pace: dal ’45 in poi.
Con i patti di Roma nel 1957, figli della dichiarazione di Schuman del 1950, gli europei decidono di costruire insieme uno spazio di pace.
Non scelgono il riarmo, piuttosto di coordinarsi, di confrontarsi, di promuovere incontri e conferenze di dialogo. Addirittura, decidono di integrarsi e stabilire valori comuni.
Una classe dirigente illuminata e intelligente indicò una via: unire interessi, condividere e costruire su valori condivisi un comune destino, saldare un’identità nuova e autonoma nello scenario mondiale.
Solo unendo e integrando interessi, risorse ed economie, il destino comune auspicato avrebbe avuto la meglio; e soprattutto le nuove giovani democrazie avrebbero potuto resistere all’accrescimento delle superpotenze e agli effetti perversi della globalizzazione.
Questo processo si è svolto attraverso tappe controverse, con successi e insuccessi, ma alla fine ha garantito il più lungo periodo di pace e benessere della storia d’Europa.
La verità amara è che ora questo processo è a rischio. Molti errori sono stati fatti, altri si rischia di farne.
Il primo riguarda gli effetti di un allargamento dell’unione promosso senza proposte ambiziose e adeguati cambiamenti nei processi decisionali. Negli ultimi vent’anni, così, l’Europa si è allargata senza integrarsi. Il trattato di Lisbona del 2007 si è rivelato un palliativo insufficiente a garantire un’Europa più integrata e complessa. Sono entrate nell’Unione giovani nazionalità cresciute in seno a grandi imperi e poi, sotto il totalitarismo sovietico. L’ingresso nell’Unione per molti non è stata vissuta, come una possibilità di arricchimento della loro cultura e identità; piuttosto come difesa rispetto ad un loro passato da dimenticare.
L’Unione, da processo di integrazione, troppo spesso è diventata strumento di pura sicurezza per se stessi. Non c’è stata la consacrazione di nuove democrazie liberali ed emancipative, come quelle scaturite dalla lotta al nazifascismo. Nè c’è stato l’irrompere dentro i nuovi e più ampi confini dei diritti individuali e sociali.
Al contrario, recentemente sta mutando la natura stessa dell’Europa; con il ritorno forte dei nazionalismi. Fa sorridere dopo le elezioni di Donald Trump un’affermazione molto comune: “Ora l’Europa deve reagire”. Certo, ma tale aspettativa deve fare i conti con il dato che in larga parte dei paesi europei, le idee di Trump sono riuscite già a radicarsi.
Il sale dello scontro non è più tra diversi europeismi, piuttosto tra chi difende uno sviluppo dell’idea europea e chi lo vuole distruggere.
Se oggi l’Europa è troppo paralizzata e decide e incide di meno, la responsabilità, dunque, non è solo delle istituzioni europee ma è grandemente nel nazionalismo risorgente che vuole smontare la stessa impalcatura unitaria. La soluzione non può essere la prudenza e la difesa dello status quo. Tutto questo sta portando l’Unione a diventare una sorta di versione ridotta delle Nazioni Unite, luogo di incontro e di confronto, ma non soggetto statuale e forza politica.
L’Europa è nata per armonizzare ed europeizzare le politiche nazionali , dal bilancio proposto , sembra affermarsi un indirizzo che punta a nazionalizzare le politiche europee.
Occorre dunque una svolta.
È il tempo delle riforme strutturali, mettendo da parte gli egoismi e perseguendo gli interessi comuni. È il momento di riscoprire una posizione dell’Europa di grande attore globale. Occorre chiamare a raccolta tutti coloro che nella società europea vogliono impegnarsi a ridefinire un’agenda possibile, realistica ma efficace e impegnativa per un’Europa forte, libera e unita. Vanno cercate tutte le collaborazioni possibili e vanno posti obiettivi specifici: cancellare il diritto di veto, una politica estera e di difesa comune, un aumento del bilancio, l’indicazione di risorse proprie, la decisione di promuovere il debito comune per le politiche di sviluppo. Insomma: un’agenda progressista per riaprire ora, in un’era buia, una prospettiva per gli Stati Uniti d’Europa.