di Stefano Vaccari
La cucina italiana non è soltanto un insieme di ricette conosciute in tutto il mondo: è un sistema culturale vivo, fatto di gesti tramandati, di saperi locali, di stagioni rispettate, di comunità che si riconoscono nel cibo. Oggi lo è ancora di più visto che la cucina italiana è stata riconosciuta dall’Unesco quale patrimonio immateriale dell’Umanità. Non si tratta solo di un importante apprezzamento dei nostri prodotti e dei nostri piatti ma una attestazione del giusto valore che ha il nostro cibo e le sue trasformazioni culinarie, perché custodiscono identità, memoria e relazione con il territorio in modo unico. È un linguaggio quotidiano che racconta l’Italia meglio di qualsiasi guida: dalle tavole contadine, alle cucine urbane contemporanee, ogni piatto nasce da un intreccio di storia, paesaggio, lavoro e creatività.
Ogni grande tradizione gastronomica ha un presupposto: le materie prime. In Italia questi elementi di base sono straordinari grazie al lavoro sapiente di agricoltori, allevatori, pescatori, osti, cuoche, cuochi, chef, che presidiano e animano i territori, spesso in condizioni complesse e con margini economici ridotti.
Dietro un formaggio d’alpeggio c’è chi gestisce pascoli in quota e manutiene i versanti montani; dietro un olio extravergine di collina c’è chi coltiva ulivi in aree difficili da meccanizzare; dietro una carne di razza autoctona allevata secondo i giusti criteri dei disciplinari di tutela, c’è chi cura genealogie, benessere animale, alimentazione naturale e presidio delle aree rurali; dietro un pomodoro da conserva c’è chi sceglie varietà adatte al microclima locale e ne segue la maturazione giorno per giorno; dietro una forma di parmigiano reggiano di appennino c’è una filiera controllata che passa dal fieno e alla mungitura delle vacche due volte al giorno da parte dell’agricoltore, alla lavorazione del latte nei caseifici e alle diverse stagionature; dietro una bottiglia di brunello di Montalcino c’è l’agricoltore che gestisce le viti, l’enologo e i vignaioli anche indipendenti che ne controllano i dosaggi, gli zuccheri, il grado alcolico, il colore, i profumi.
Questo lavoro è tutela attiva del paesaggio: senza agricoltura e allevamento di qualità, non esisterebbero né biodiversità alimentare né cucina italiana come la conosciamo, e neppure quella rete di osterie, trattorie, ristoranti, agriturismi che la offrono a tutto il mondo.
L’Italia è il Paese leader in Europa per numero di Indicazioni Geografiche e Denominazioni d’Origini Protette, che certificano origine, filiere, metodo produttivo e legame con il territorio, e l’Emilia Romagna è la Regione principe in Italia.
Secondo il Rapporto Ismea–Qualivita i prodotti riconosciuti DOP, IGP e STG sono 328 nel comparto cibo e 528 nel comparto vitivinicolo. Di questi 44 sono in Emilia Romagna.
Nel complesso, cibo e vino certificati DOP/IGP/STG sono 861; aggiungendo 36 bevande spiritose IG, si arriva a 897 Indicazioni Geografiche italiane totali.
Questi numeri non sono una semplice classifica: sono la misura di quanto il Paese abbia investito nella qualità come politica “industriale” e culturale, trasformando tradizioni locali in valore riconosciuto a livello mondiale.
Parlare di “cucina italiana” al singolare è semplice, ma non accurato. L’Italia è un mosaico agroecologico: Alpi, Appennini, pianure irrigue, coste, isole vulcaniche, colline e terrazzamenti interni. In pochi chilometri cambiano suolo, altitudine, venti, disponibilità d’acqua, temperature, varietà coltivabili e razze allevate. E con i cambiamenti climatici le variazioni e le tipologie di prodotti stanno variando sempre più.
Questa diversità fisica produce diversità culinaria. In una economia circolare ciò che l’artigianato e l’industria assunsero più tardi nel tempo, in agricoltura vigeva già l’assunto del “non si butta via niente”.
La cucina alpina è nata per conservare energia e calore: latte, burro, formaggi stagionati, cereali rustici.
Le cucine costiere hanno sviluppato tecniche leggere e immediate per il pescato, per la sua conservazione, valorizzando erbe aromatiche e agrumi. Le aree interne hanno fatto della cucina di recupero una virtù: legumi, frattaglie, pane raffermo, fermentazioni.
Le isole uniscono stratificazioni storiche (greca, araba, normanna, spagnola) con ecosistemi unici.
Il risultato è una delle più alte densità di tradizioni gastronomiche al mondo: non esiste “un” modo italiano di mangiare bene, ma migliaia di modi coerenti e rispettosi con il luogo e la comunità che li ha generati.
Questa ricchezza non è però garantita per sempre.
Anzi, proprio ora serve un salto di qualità nelle politiche di tutela. Serve difendere e rigenerare territorio. Consumo di suolo, abbandono delle aree interne, cambiamenti climatici, dissesto idrogeologico e riduzione della fertilità agricola minacciano e cambiano l’ecosistema che sostiene le produzioni. La qualità alimentare è inseparabile dalla salute dei paesaggi rurali. Serve garantire lavoro regolare e paghe giuste. Non può esistere eccellenza costruita sullo sfruttamento, perché non può essere più chiamata tale.
La filiera del cibo deve remunerare correttamente e adeguatamente innanzitutto chi produce, trasformando la qualità in valore redistribuito. Contratti chiari e salari equi sono parte integrante della sostenibilità. Per questo serve combattere il caporalato. Lo sfruttamento illegale del lavoro agricolo non è solo un problema etico e sociale: distorce il mercato, penalizza le aziende corrette e degrada la reputazione del Made in Italy. La lotta al caporalato è una politica di qualità, non un tema “collaterale” o accessorio.
Serve contrastare i mutamenti climatici a livello globale, ma a livello locale le parole d’ordine sono già da tempo resilienza e adattamento. Siccità, eventi estremi, nuovi parassiti e instabilità stagionale già incidono su rese, aromi, disponibilità idrica e costi. E prodotti, prima solo tropicali, sono già coltivati nelle regioni più a sud del Paese. Difendere la cucina italiana significa investire in agricoltura resiliente: varietà adattate ai nuovi climi, gestione intelligente dell’acqua, cura del suolo, agroforestazione, riduzione delle emissioni lungo l’intera filiera.
Serve tutelare la biodiversità e mantenere l’equilibrio con la fauna selvatica. La biodiversità agricola e naturale è la radice della cucina italiana: varietà locali, razze autoctone, impollinatori, ecosistemi sani determinano qualità, resilienza e identità delle produzioni. Ma oggi questa tutela richiede anche una gestione equilibrata della fauna selvatica, la cui presenza – se non governata – può compromettere colture, allevamenti e sicurezza dei territori rurali. Serve quindi un approccio integrato: proteggere gli habitat, prevenire i conflitti con l’agricoltura, sostenere gli agricoltori nelle misure di difesa non cruente e adottare piani di gestione e di prelievo faunistico basati su dati scientifici. Solo mantenendo questo equilibrio si preserva davvero il capitale naturale da cui dipende la nostra eccellenza alimentare.
Serve garantire piena accessibilità al cibo perché possano fruirne tutte e tutti, anche a tutela della salute individuale e collettiva.
La cucina italiana è patrimonio immateriale dell’Umanità perché non vive in luoghi chiusi, ma nelle mani delle persone: in chi coltiva, alleva, pesca, studia, trasforma, innova, commercializza e cucina. È un bene comune che richiede una maggiore responsabilità collettiva.
Rafforzare la qualità oggi vuol dire scegliere filiere trasparenti, difendere il territorio come infrastruttura culturale, rispettare il lavoro umano e affrontare il clima che cambia. Solo così la nostra straordinaria diversità gastronomica resterà viva, autentica e capace di generare benessere per le comunità che la custodiscono.