di Marco Ciarafoni
Ieri ho partecipato, alla Camera, nella prestigiosa Sala della Regina, alla cerimonia di assegnazione delle Bandiere Verdi da parte della Cia – Confederazione Italiana Agricoltori.
Non sono qui per raccontarvi del prestigioso premio, dei vincitori o dell’organizzazione – impeccabile – dell’evento. Un grazie sincero al presidente Cristiano Fini, al gruppo dirigente della Cia e ai suoi splendidi collaboratori.
Sono qui per raccontarvi le sensazioni e le emozioni che ho provato.
In quella sala, colma di volti e storie, mi sono soffermato a guardare le persone presenti. Ho colto, prima di tutto, orgoglio nei loro occhi: orgoglio per essere lì, nella casa della democrazia, in un luogo che troppo raramente ospita chi lavora con la terra, le mani, la fatica e la passione.
E ha fatto bene Stefano Vaccari, segretario di Presidenza della Camera, a ricordare come fosse naturale che proprio lì, nel cuore delle istituzioni, gli agricoltori italiani avessero piena cittadinanza. Perché rappresentano l’essenza più concreta del nostro Paese.
Dietro ogni “bandiera verde” non c’è solo un’azienda agricola: c’è una famiglia, una storia, una comunità. Ci sono giovani che scelgono di restare, di investire in un futuro che non promette ricchezze facili ma restituisce dignità e senso. Ci sono donne che custodiscono tradizioni e innovano con coraggio, riportando vita nei borghi, nelle aree interne, nei territori dimenticati.
Ogni ettaro coltivato, ogni muretto a secco riparato, ogni seme piantato è un atto di resistenza culturale e civile.
Come scriveva Cesare Pavese, “La terra è dura e lenta, ma insegna più delle parole.”
Ed è proprio questa lentezza, questa dedizione quotidiana, che oggi dovremmo imparare a riconoscere e valorizzare di più. Gli agricoltori non sono solo produttori di cibo: sono custodi del paesaggio, garanti della biodiversità, difensori del territorio. Mantengono viva la montagna, presidiano le colline, proteggono le pianure dall’abbandono e dal degrado.
Molti di loro, ieri, avevano mani segnate e sguardi limpidi. Si percepiva la fierezza di chi ha trasformato la fatica in valore, il sacrificio in esempio.
Eppure, troppo spesso, il loro lavoro resta invisibile, i loro problemi ignorati. E allora questo premio – che pure è importante – dovrebbe essere anche un richiamo al dovere collettivo: quello di sostenere chi produce con rispetto, chi crea valore con il lavoro quotidiano e con la cura del territorio. Non sempre è così.
In un tempo in cui tutto sembra effimero e digitale, gli agricoltori ci ricordano che la vera innovazione è restare fedeli alla terra, trasformarla con intelligenza e custodirla per le generazioni future.
Come diceva Giuseppe Ungaretti, “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie.”
E forse anche gli agricoltori, esposti alle incertezze del clima e del mercato, sanno cosa significa vivere in equilibrio precario. Ma non smettono di seminare. Perché sanno che ogni seme è una promessa di vita.
Ecco, le Bandiere Verdi non sono solo premi. Sono testimonianze di speranza.
Sono la prova che l’Italia migliore non è quella che urla, che assume ideologicamente posizioni, ma quella che lavora in silenzio, che cura, che costruisce.
E a guardare quei volti, ieri, si capiva che il futuro del Paese ha ancora radici forti. Per fortuna, mi permetto di aggiungere.