di Filippo Simeone
Da sempre, Italia e Stati Uniti si guardano come due specchi deformanti. Ciò che accade da una parte dell’Atlantico, prima o poi, si riflette sull’altra: le parole d’ordine, i miti della sicurezza, le paure collettive, persino lo stile della leadership. Trump e Meloni, in questo senso, sono figli della stessa epoca politica: quella del potere che si costruisce sulla semplificazione e sul consenso emotivo, dove il leader non rappresenta il popolo ma lo incarna, lo sostituisce, lo dirige.
Se l’America corre verso la personalizzazione assoluta del potere, l’Italia sembra inseguirla con entusiasmo, ripetendo la stessa illusione: che la democrazia possa sopravvivere anche quando si consegna a un solo volto.
Ci sono, certo, delle differenze. Negli Stati Uniti la polarizzazione è orizzontale — due blocchi che si fronteggiano; in Italia, invece, la chiusura è verticale. La destra al governo ha trasformato la rappresentanza in verticalità, il voto in delega. Lo si vede anche nelle elezioni regionali, dove la maggioranza rivendica le scelte di Roma più che discutere i temi locali. Non è più un Paese spaccato in due metà che non si parlano, ma un Paese in cui la voce dal basso viene sistematicamente spenta: nei media pubblici, nella scuola, nel Parlamento, nei luoghi della cultura.
La democrazia italiana sta diventando una democrazia verticale, dove il comando si traveste da efficienza e la decisione viene scambiata per coraggio. Ed è ancora più allarmante rispetto agli Stati Uniti, dove i poteri federali e statali restano distinti, e con elezioni ogni due anni è difficile consolidare un potere personale.
In Italia, da tempo, il rapporto tra potere politico e giornalismo vive un deterioramento progressivo.
Giorgia Meloni non ha mai nascosto una certa insofferenza verso le domande dei cronisti. Lo ha ammesso lei stessa, lo scorso agosto, in un fuorionda con Donald Trump: “I never want to speak with my press”. Non voglio mai parlare con la mia stampa. Una frase che fotografa perfettamente l’atteggiamento della premier: non l’apertura al confronto, ma il controllo della narrazione.
Secondo i dati di Pagella Politica, sono passati più di 280 giorni dall’ultima conferenza stampa aperta a tutti. Quando ha deciso di parlare della manovra economica, lo ha fatto tramite un’intervista al Sole 24 Ore affidata a una collaboratrice esterna. I giornalisti della redazione hanno reagito con uno sciopero unanime, ma il giornale è uscito lo stesso. Un episodio che mostra quanto sia sottile — ma reale — il confine tra autonomia editoriale e obbedienza al potere.
A ciò si aggiunge il controllo crescente sulla RAI, sempre più ridotta a organo di governo: nomine pilotate, epurazioni silenziose, cancellazioni di programmi scomodi, marginalizzazione delle voci critiche come quelle di Report o di Sigfrido Ranucci. La televisione pubblica, da luogo del pluralismo, si è trasformata in strumento di consenso.
Il parallelo con gli Stati Uniti è evidente. Trump tenta di riscrivere il rapporto tra Stato e stampa imponendo l’autorizzazione preventiva; Meloni, più sottilmente, costruisce una bolla di consenso mediatico in cui il dissenso viene delegittimato, ridicolizzato o ignorato. In entrambi i casi, il messaggio è lo stesso: il potere vuole decidere cosa è notizia e cosa no.
Non è un caso che il progetto di riforma costituzionale sul premierato sia oggi il cavallo di battaglia del governo. La riforma prevede che il Presidente del Consiglio sia eletto direttamente dai cittadini, che alla lista vincente venga garantito un premio di maggioranza e che la legislatura duri cinque anni, salvo dimissioni volontarie del premier. In pratica, il rapporto di fiducia non sarà più tra Parlamento e Governo, ma tra Leader e Popolo.
È l’espressione più evidente della tentazione di trasformare la forma parlamentare in un sistema monocratico, dove il capo del governo — investito direttamente dal voto — sovrasta il Parlamento. Dietro il linguaggio dell’efficienza e della stabilità si nasconde una visione gerarchica della democrazia: meno rappresentanza, più comando.
L’idea stessa di “premier eletto dal popolo” riproduce il mito dell’investitura carismatica, la stessa logica che negli Stati Uniti alimenta il culto di Trump: un potere personale travestito da volontà popolare. Ma la Costituzione italiana — nata dopo il fascismo — è stata costruita proprio per impedire che la sovranità si concentri in una sola persona. La sua architettura, fondata sull’equilibrio tra poteri, non è un freno: è una garanzia di libertà.
Il potere contemporaneo non cerca più il consenso razionale, ma quello emozionale. Non convince con argomenti, ma con sensazioni: paura, orgoglio, rabbia. Come scrive Pierre Rosanvallon, la democrazia delle emozioni è una democrazia impoverita, dove “il cittadino reagisce, non partecipa”. E Martha Nussbaum ricorda che la politica della paura è la forma più raffinata di manipolazione moderna.
Nasce così la popolocrazia digitale, il rovescio oscuro della democrazia online: più partecipiamo, meno contiamo. L’illusione della partecipazione diretta — il like, il commento, la condivisione — sostituisce progressivamente gli spazi reali del confronto e della deliberazione. Il potere di decidere resta nelle mani di chi controlla la narrazione e l’immaginario collettivo.
In questo contesto, la proposta di premierato assume un significato ancora più delicato. Se il capo del governo venisse eletto direttamente dai cittadini e restasse in carica per cinque anni, con una maggioranza blindata e ridotti contrappesi parlamentari, la dinamica digitale del consenso rischierebbe di trasformarsi in un plebiscito permanente. Non sarebbe più la rappresentanza istituzionale a garantire l’equilibrio democratico, ma l’algoritmo delle piattaforme e la capacità comunicativa del leader.
In un ecosistema dominato da TikTok, Instagram e Facebook, un trend o una diretta emozionale possono spostare più opinioni di un’intera campagna elettorale. Se a ciò si aggiunge un assetto costituzionale che concentra il potere esecutivo in un solo individuo, la sovranità popolare rischia di ridursi a un click. Il governo diventerebbe un presidio mediatico permanente, costruito sull’immagine del leader più che sul confronto tra idee.
Trump, come Meloni, lo sa benissimo: ogni post è un atto di potere, ogni diretta un plebiscito simbolico.
Ma mentre negli Stati Uniti i contrappesi istituzionali restano forti, in Italia la combinazione tra leaderismo digitale e premierato elettivo potrebbe generare una forma nuova di verticalizzazione del potere, dove la legittimazione popolare, invece di limitare il potere, lo blinderebbe per cinque anni, sottraendolo a ogni reale possibilità di dissenso.
Il rischio, però, non è solo dall’alto. È anche dal basso. La popolocrazia digitale funziona perché noi stessi, spesso inconsapevolmente, accettiamo di delegare la complessità in cambio della semplicità del consenso. Preferiamo reagire invece di riflettere, scegliere identità invece che idee. Non siamo più cittadini che eleggono rappresentanti, ma follower che scelgono influencer. È la trasformazione antropologica della democrazia: dalla partecipazione critica all’adesione emotiva. La democrazia non è un regno. Non prevede troni né investiture carismatiche, ma bilanciamenti, limiti e responsabilità. Ricordiamocelo quando ci sarà da scegliere: No Kings, No Queens.