di Massimiliano Valeriani
A sentire il presidente della Regione Lazio, Francesco Rocca, il nostro sistema sanitario sarebbe nel mezzo di una trasformazione epocale. Un racconto avvincente, nutrito dai miliardi del PNRR, fatto di cantieri che avanzano spediti, liste d’attesa quasi azzerate e primati tecnologici.
Peccato che a smontare pezzo per pezzo questo castello di annunci arrivino dati oggettivi. Non opinioni o critiche di parte, ma i numeri ufficiali e impietosi del report di AGENAS sullo stato di attuazione della riforma al 30 giugno 2025, oltre a quelli, altrettanto drammatici, della Fondazione GIMBE e di Cittadinanzattiva. Quello che emerge non è il ritratto di una rivoluzione a metà, ma il quadro desolante di una riforma fantasma, dove ai nuovi edifici della Case di Comunità non corrispondono i servizi, dove il personale resta un miraggio e dove il fallimento strutturale sta generando un’emergenza sociale senza precedenti.
L’analisi dei dati ufficiali non lascia spazio a interpretazioni: la sanità di prossimità promessa ai cittadini del Lazio, per ora è solo un’infrastruttura di scatole vuote che sta costringendo centinaia di migliaia di persone a rinunciare al proprio diritto alla salute.
Il grande bluff delle Case di Comunità: 95 sedi attive, ma solo 5 realmente funzionanti
Il cuore della critica, il punto di rottura tra la propaganda e la realtà, risiede nel simbolo stesso della sanità territoriale: le Case di Comunità (CdC). L’Amministrazione Rocca potrebbe vantare un dato apparentemente lusinghiero: delle 146 Case di Comunità programmate, ben 95 risultano “attive” con almeno un servizio funzionante. Una percentuale di circa il 65%, ben al di sopra della media nazionale ferma al 38%. Un successo? Tutt’altro. È il primo grande bluff.
“Attivo” è un termine volutamente ambiguo. Basta un solo servizio per definire una sede come “attiva”, ma una Casa di Comunità, secondo la riforma del DM 77/2022, è un’altra cosa: vale a dire un hub integrato con medici, infermieri e un paniere completo di servizi di base. E qui, i numeri di AGENAS diventano una sentenza:
● piena conformità: delle 146 previste e delle 95 sedi “attive”, solo 5 rispettano pienamente tutti gli standard previsti dalla legge, sia in termini di servizi obbligatori che di presenza di personale medico e infermieristico. Si tratta di meno del 4% del totale.
● carenza di personale: la criticità è drammatica sulle risorse umane. Solo 16 strutture hanno una presenza medica a standard e appena 30 una presenza infermieristica a norma.
● servizi a singhiozzo: persino il servizio più qualificante, quello delle cure primarie in équipe multiprofessionali, è presente in appena 26 delle 95 sedi.
Quella che emerge è l’immagine di “cattedrali nel deserto”: strutture inaugurate, magari con un punto prelievi o un ambulatorio specialistico, ma prive dell’anima e del motore della riforma prevista dal DM 77/22. Mentre il presidente Rocca parla di “dignità del lavoro” come soluzione ai salari inadeguati, la realtà mostra che quel lavoro, in queste nuove sedi, semplicemente non c’è.
Ospedali di Comunità e COT: un successo isolato che amplifica il fallimento
Se la situazione delle Case di Comunità è critica, quella degli Ospedali di Comunità (OdC) è stagnante. A fronte dei toni trionfalistici sui “32 cantieri con avanzamenti oltre il 90%”, il dato di AGENAS è brutale: su 42 Ospedali di Comunità previsti nel Lazio, solo 2 sono dichiarati attivi. Una percentuale di attivazione inferiore al 5%. Ancora una volta si confonde il cantiere con il servizio, il mattone con il paziente. L’avanzamento dei lavori strutturali è irrilevante se le porte di quelle strutture restano chiuse e i letti vuoti.
In questo panorama desolante, spicca un unico obiettivo raggiunto: l’attivazione del 100% delle 61 Centrali Operative Territoriali (COT) previste. Le COT sono le centrali di coordinamento che dovrebbero smistare i pazienti e orchestrare la presa in carico sul territorio. Premesso che molte di queste erano già attive durante il Covid – aiutando di fatto la gestione dei pazienti e l’allocazione degli stessi nella filiera delle strutture Covid – è necessario ribadire che questo successo, anziché mitigare il giudizio, lo aggrava. Avere dei centri di comando perfettamente funzionanti, ma senza un esercito sul campo (le CdC e gli OdC) che dà a loro la ragione di esistere e di funzionare è strategicamente inutile. È come avere un centralino modernissimo a cui però non risponde nessuno.
Il prezzo del fallimento: cure negate, spesa record e disuguaglianze
Questa paralisi della sanità territoriale si riflette a cascata sui cittadini, con conseguenze devastanti. I dati sulla salute nel Lazio non descrivono semplici inefficienze, ma una vera e propria crisi sociale e dell’esigibilità del diritto alla salute:
● Record di rinuncia alle cure: nel 2024, ben 685.769 cittadini laziali hanno rinunciato a visite ed esami diagnostici, con un aumento di quasi 86.000 persone rispetto all’anno prima. Con il 12% della popolazione che rinuncia alle cure, il Lazio è la quarta peggior regione d’Italia, ben al di sopra della media nazionale del 9,9%.
● Liste d’attesa fuori controllo: il “miracolo statistico” dell’abbattimento dei tempi medi si scontra con una realtà drammatica. 25 prestazioni su 119 con priorità “breve” (entro 10 giorni) non rispettano gli standard. Per alcune, come l’elettromiografia, l’attesa è sestuplicata a 69 giorni. Quasi la metà dei cittadini (48,8%) non riesce ad ottenere l’appuntamento richiesto e il 70% si è scontrato con liste d’attesa chiuse.
● Fuga verso il privato e spesa record: incapaci di ottenere risposte dal pubblico, i cittadini sono costretti a pagare di tasca propria. Il Lazio detiene il triste primato nazionale per spesa sanitaria privata: 852 euro pro-capite e 1.852 euro per famiglia all’anno, cifre nettamente superiori alla media italiana. Si è creata una sanità a due velocità: chi può pagare si cura, chi non può rinuncia, come fa il 14% degli anziani per motivi economici.
● Disuguaglianze territoriali e sociali: Il sistema non è solo inefficiente, è profondamente iniquo. Roma concentra il 67% dei servizi specialistici, lasciando le province scoperte. I dati del Dipartimento di Epidemiologia Regionale confermano che posizione socioeconomica, cittadinanza ed etnia sono associate a differenze sistematiche di salute, con le fasce più povere che hanno maggiori difficoltà di accesso ai servizi
I dati di AGENAS, Gimbe e Cittadinanzattiva non sono solo una critica, ma rappresentano una fotografia impietosa. L’Amministrazione Rocca è drammaticamente inefficace nel trasformare i progetti in servizi reali. Il PNRR ha offerto al Lazio un’opportunità storica per superare le sue croniche debolezze. A oggi, però, quella possibilità sembra sprecata. La “mezza rivoluzione” tanto decantata, in realtà obbligatoriamente prevista dal DM/77, si è fermata alla posa della prima pietra.
Ma non si tratta più solo di un’occasione persa. La paralisi della riforma territoriale sta avendo un impatto diretto e devastante sulla vita e sulla salute di centinaia di migliaia di cittadini. Il rischio concreto è che, al di là dei proclami, il diritto costituzionale alla salute si trasformi definitivamente in un privilegio economico, compromettendo la coesione sociale e la tenuta democratica del sistema sanitario regionale del Lazio.