Discutiamo dei referendum. Ma che non sia una sterile resa dei conti

di Daniele Borioli

Trasformare in una resa dei conti interna al PD l’esito del voto referendario sarebbe un errore, dannoso tanto per la maggioranza che guida il Partito, quanto per la minoranza. In definitiva, per tutti. Viceversa, è utile avviare un confronto serio, se serve anche aspro, ma finalizzato a inquadrare lucidamente i problemi che l’esito delle urne ci restituisce.

In primis, un ragionamento, e possibilmente una proposta, occorrerà mettere in campo per ridare vigore a uno strumento di democrazia diretta prezioso, ma il cui pregio deve essere preservato: sia rendendone più selettiva e impegnativa per i proponenti l’indizione, sia intervenendo sul quorum, non per eliminarlo (sarebbe sbagliato!) ma per renderlo meno draconiano, a fronte di una mobilitazione di cittadini richiedenti più consistente delle attuali 500mila firme richieste.

Qualcosa di utile, al proposito, era contenuto nella riforma costituzionale Renzi/Boschi, approvata dal Parlamento nel corso della XVII Legislatura e, paradossalmente, stroncata proprio da un referendum confermativo, che non prevede quorum. Non è questa la sede per addentrarsi in proposte normative specifiche. Ma non c’è dubbio che la questione esiste e andrà affrontata. E mi pare ragionevole credere che, sul punto, potrebbe non essere difficile trovare un accordo: tra le anime del PD che intorno ai quesiti della recente tornata hanno assunto posizioni sensibilmente differenti, e con le altre forze del centrosinistra, che pure sui diversi quesiti hanno sostenuto posizioni non coincidenti.

Ancora più necessario è, al tempo stesso, trovare un filo ordinato di ragionamento e discussione, nel PD e nel centrosinistra. Evitando, come ci sollecitano a evitare diversi iscritti ed elettori, che l’esito del voto referendario diventi occasione di lacerazioni interne al maggior partito del fronte delle opposizioni: proprio nel frangente in cui si tratta di costruire un campo di forze in grado di battere le destre quando sarà il momento.

Ovviamente, non si tratta di stare “buoni e zitti”, ma di provare a leggere le luci e le ombre che le urne ci hanno restituito. Privilegiando lo sforzo di inquadrare le difficoltà e le potenzialità del lavoro che ci attende. Ciò non significa tacitare le opinioni di chi, ad esempio, pensava e pensa che cimentarsi in una battaglia referendaria ad alto rischio quorum, intorno a quesiti in alcuni casi di difficile decodificazione, sia stato un azzardo. Ma piuttosto cercare di leggere, nella sconfitta, tanto i segnali positivi quanto quelli negativi, entrambi certamente presenti.

Certamente, il voto referendario è stato per chi lo aveva indetto una sconfitta. Certamente il PD ha il compito di rendere convincente la propria proposta politica anche a coloro che, consapevolmente, hanno scelto di non partecipare o di votare no. Su questo versante, il contributo di chi nel Partito aveva, e ha manifestato in questi mesi, le proprie obiezioni è e sarà sicuramente utile.

Ma non meno utile è anche valorizzare la sintonia che nella campagna elettorale, fatta pancia a terra, il Partito Democratico è riuscito a ricostruire con una parte significativa del mondo del lavoro: che, come dimostrano i dati dell’Istituto Cattaneo e i primi sondaggi politici successivi al voto, ha rafforzato un legame di rappresentanza, che oltretutto si misura in un significativo balzo di consensi nei primi sondaggi politici successivi al voto.

Su questo terreno, desidero argomentare in modo molto schietto il mio dissenso: tanto verso le scivolate trionfalistiche che hanno portato taluni a parlare di “grande risultato”; quanto verso chi, rovesciando l’approccio ma sostanzialmente replicando un’analoga impostazione ideologica, vuole leggere la sconfitta delle urne come una sconfitta tout court del Partito, che sarebbe incapace di mettersi in sincrono con il Paese, preferendo arroccarsi su posizioni da taluni definite “massimaliste”.

Come se i milioni che hanno votato Sì non fossero una consistente quota, di svariati milioni, degli elettori italiani, della cui rappresentanza è utile si faccia carico la forza maggiore della costruenda coalizione: che è poi l’unica in grado di collegare questa specifica rappresentanza alla rappresentanza di altri interessi e di altre istanze sociali ed economiche.

Definire poi come “massimalistiche”, se non addirittura settarie, le posizioni assunte in difesa e per il ripristino di alcune delle norme contenute nello “Statuto dei lavoratori”, significa storpiare la storia: per la quale le tutele dei lavoratori contenute in quel testo, approvato nell’ormai lontano 1970, furono l’esito compiuto di un processo riformatore tutt’altro che filo-comunista, ma ispirato dal ministro socialista del lavoro, Giacomo Brodolini, e concluso dal suo successore, il democristiano Carlo Donat Cattin.

Alcune considerazioni specifiche, e in parte distinte da quelle relative agli altri quesiti, meritano due dei referendum: il quarto, relativo alla responsabilità per gli infortuni sul lavoro; e il quinto, relativo al riconoscimento della cittadinanza. Due temi la cui rilevanza civile e morale supera, a prescindere dalle disquisizioni possibili sullo strumento referendari, la bagarre delle discussioni di breve periodo sorgenti all’indomani del voto.

Per quanto riguarda la responsabilità in materia di infortuni sul lavoro, è del tutto evidente come il quesito toccasse un tema di grandissima e urgente rilevanza, relativo a una delle piaghe più dolorose e intollerabili che affliggono il mondo del lavoro. Le storpiature del nuovo codice degli appalti approvato nel 2016, che tentò di dare una regolazione più incisiva e trasparente alla materia, ponendo limitazioni incisive all’utilizzo dei subappalti, lungo la catena dei quali si annidano spesso i meccanismi del lavoro nero e delle infiltrazioni criminali, vero terreno di coltura dell’infortunistica, ha riportato la questione della sicurezza sul lavoro su numeri definibili come una vera e propria emergenza nazionale.

Su tale tematica, attardarsi in una sterile contrapposizione interna rischia di portarci fuori dal terreno proprio di una proposta riformista, che al di là e oltre l’esito referendario, costituisce un asse prioritario di impegno, per una forza che voglia davvero dare corpo concreto al principio sancito dall’articolo 1 della Costituzione, che fonda sul lavoro la Repubblica italiana.

Una riflessione particolare, infine, va svolta sul responso del quinto quesito: quello relativo alla modifica delle norme sul riconoscimento della cittadinanza. Il più doloroso da accettare, nel suo dato percentuale; dal quale si evidenzia come anche dall’elettorato PD, in misura certo non trascurabile, sia arrivata una bocciatura pesante, che apre a tutto il partito un’emergenza drammatica.

Per dirla con Bersani, l’esito del voto su un tema che collega il versante dei diritti sociali e del lavoro a quello dei diritti civili, è in questo momento, e in vista delle battaglie che ci attendono, la “mucca nel corridoio” che non possiamo non vedere. La cui ingombrante presenza ci riguarda tutti, quali che fossero le opinioni di ciascuno sui primi tre quesiti.

Essendo per gran parte, il tema proposto, attinente a uno dei cardini dello stesso riformismo democratico e liberale che anima una parte consistente del PD. Ed essendo quello sul quale, al netto dell’imbarazzante “libertà di coscienza” lasciata da Conte agli elettori pentastellati, c’era ampia convergenza da parte di pressoché tutte le forze del centrosinistra, da AVS a Renzi e Calenda. Come affrontare lo scarto tra le nostre idee e proposte in merito al riconoscimento della cittadinanza e ciò che oggi pensano in proposito i nostri elettori, è questione da far tremare le vene ai polsi. C’è un lavoro, pancia a terra, da fare nei territori e, in particolare, nelle periferie, al quale occorre dedicarsi da subito: con le energie che si mobilitano di fronte alle emergenze.